Alla fine del mondo e oltre

📅 Quando: 21 e 22 marzo 2024
📍 Dove: Sala Napoleonica di via Sant’Antonio, Università degli Studi di Milano

Per l’A.A. 2023-2024, Geolitterae organizza con il Centro di Ricerca Coordinata C.H.A.I.N il convegno interdisciplinare Alla fine del mondo e oltre: migrazioni geografiche e testuali.

L’evento: focus interdisciplinare e multiculturale sulle migrazioni

Fotografia scattata in Transilvania, parte della serie "Made in Romania" di Barbara Barberis
B. Barberis, Made in Romania, 2011

Intenzionalmente interdisciplinare, questo evento propone uno sguardo molteplice attraverso varie discipline, dagli Studi letterari alla Linguistica, dagli Studi culturali alla Geografia, cercando di coinvolgere una campionatura ampia di lingue e visioni che possano arricchire la riflessione su quello che è di fatto l’argomento più urgente del presente.

La mostra Made in Romania di Barbara Barberis, allestita negli spazi antistanti alla Sala Napoleonica, esplorerà il fenomeno della migrazione attraverso il medium fotografico. Di seguito il programma, gli abstract degli interventi e, prossimamente, tanto altro.

21 Marzo – Giorno 1

14:30-15.00 – Saluti istituzionali

Con il Rettore Elio Franzini, il Direttore del Dipartimento di Lingue, Letterature, Culture e Mediazioni Marco Castellari e la Presidente della Scuola di Scienze della Mediazione Linguistica e Culturale Paola Catenaccio

15:00-16:00 – Keynote 1

Chair: Nicoletta Brazzelli

Lidia De Michelis: “Fare spazio all’umano”: cronotopi dell’ambiente ostile e poetiche dell’attraversamento in alcuni percorsi recenti di letteratura sulle migrazioni

Il titolo dell’intervento trae ispirazione dalla recente monografia di David Herd Writing Against Expulsion in the Post-War World: Making Space for the Human (OUP, 2023). Nell’opera, il poeta, accademico e attivista britannico (noto per il suo ruolo di co-fondatore e animatore, con Anna Pincus, del progetto “Refugee Tales – A walk in solidarity with refugees, people seeking asylum, migrants, and people who have experienced immigration detention”) storicizza il dibattito sul rapporto tra costruzione discorsiva e creazione giuridica della displaced person (DP) come “geopolitical non-person” a partire da una indagine testuale della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948) e della Convenzione sullo Status dei Rifugiati (1951). Nel volume l’autore sviluppa questa linea di analisi tenendo in filigrana opere di, tra gli altri, Hannah Arendt, Franz Fanon e Henri Lefebvre, e individuando nella loro elaborazione di un “linguaggio dei diritti” uno straordinario nucleo di risorse intellettuali e etiche volte a contrastare le politiche di “espulsione” che hanno segnato le migrazioni forzate dell’immediato dopoguerra e dei primi anni ’50 e i cui echi si riverberano sulle rappresentazioni dell’oggi. Egli estende poi il suo sguardo al versante della poesia, ponendo in relazione questa etica non espulsiva con l’attivismo e la poetica del movimento di Charles Olson, un’influenza importante sulla produzione in versi dello stesso Herd, sostenuta dalla fiducia in una sinergia tra storytelling e movimento capace di determinare spazi di accoglienza e legittimazione all’interno dello hostile environment britannico (e globale).

Da Writing Against Expulsion si trarranno solo alcune considerazioni utili allo sviluppo del discorso, che ‒ circoscritto ad ambiti disciplinari approfonditi nel mio lavoro (letteratura inglese e anglofona degli anni ’2000, il Mediterraneo) e ad una particolare prospettiva legata alla ricerca di modalità “ospitali” del raccontare “storie” delle migrazioni odierne ‒ servono a sottolineare, nelle parole di Kamila Shamsie, “i rapporti relazionali tra movimento, azione e parola attraverso cui ‘fare spazio all’umano’ diviene possibile” (in Herd, 2023, endorsements).

In quest’ottica, e traendo l’avvio dalla suggestiva “intervista impossibile” con Susan Barton, la protagonista femminile di Foe di J.M. Coetzee (1986), in cui la drammaturga e regista Lina Prosa (2019) si interroga sulla funzione poetico/narratologica del “naufragio”, si proverà a riflettere su come cronotopi dell’interruzione (quali il muro, il confine, l’isola, il centro di detenzione, il muro mediale dello hate speech sui social media e nel discorso politico) vengano rappresentati e decostruiti in alcune opere la cui finalità è, tuttavia, di consentire un “attraversamento” da parte del racconto e della comunità dei lettori verso immaginari porosi, nutriti dai linguaggi restitutivi della mobilità, del riconoscimento e dell’accoglienza.

L’enfasi sullo storytelling vuole esplicitare, inoltre, la cornice metodologica di conjunctural cultural studies cui il mio approccio si ispira ‒ rinviando alla ricerca e articolazione di “storie migliori” basate su una comprensione complessa del presente al fine di delineare immaginari più umani e giusti quali “premesse possibili per battaglie strategiche di trasformazione” che occupa un posto centrale nel pensiero di Lawrence Grossberg (2010a: 246).

Coffee Break

16:30-18:30 – Panel 1

Chair: Moira Paleari

Marco Modenesi: Un’America fra immaginario e realtà: lo sguardo migrante di Alain Mabanckou

Alain Mabanckou, congolese, da tempo vive e insegna negli Stati Uniti. Rumeurs d’Amérique registra il punto di vista di un migrante particolare che offre la lettura della realtà statunitense che vive nel quotidiano. Lo sguardo, però, mantiene spesso, come elemento di paragone, la cultura africana d’origine, ritrovando singolari analogie e suggerendo, quasi tacitamente, la superiorità di quest’ultima su diversi tratti della cultura nord-americana.

Annarita Taronna: Agire con la lingua: pratiche di inclusione e traduzione nei contesti migratori segnati da GBV (gender-based violence)

Negli ultimi anni, il conflitto tra Russia e Ucraina, così come quello mai spento tra Palestina e Israele, oltre a quelli meno attenzionati in Afghanistan e Siria, hanno portato migliaia di migranti a fuggire dai loro paesi in guerra e ad attraversare il Mediterraneo, scompaginando la cartografia europea e facendo aprire valichi più o meno ospitali per i profughi.  Il flusso incessante di corpi, beni e culture ha portato i territori e le aree geografiche segnati dai transiti a vivere un processo di radicale diversificazione non solo in termini economici, ma anche religiosi, etnografici e geopolitici e linguistici. 

Guardando a questo nuovo assetto, il contributo mirerà ad affrontare alcune riflessioni teoriche che negli ultimi anni hanno caratterizzato il dibattito sull’uso della lingua nei contesti migratori, sul superamento della concezione della lingua da struttura predefinita a prodotto di una pratica e di una attività sociale reiterata, e della concezione dell’identità come una caratteristica variabile che si definisce nel processo stesso dell’interazione con l’altro.

Nello specifico, saranno posti alcuni degli interrogativi cruciali sottesi alle suddette riflessioni: come si può agire con la lingua nel contesto delle migrazioni contemporanee? in che modo la lingua agisce sui corpi delle donne migranti segnati dalla violenza di genere? Partendo dalla ricognizione sull’ ampia letteratura scientifica che indica nella barriera linguistica uno dei fattori che disincentiva il ricorso delle donne migranti vittime di GBV ai percorsi di cura e di assistenza psicologica, il presente contributo esaminerà, in particolare, il ruolo della mediazione linguistica, la dimensione politica dei vissuti narrativi dei mediatori e delle mediatrici linguistiche, le sfide etiche e i rischi di trauma vicario che caratterizzano la professione in condizioni di estrema vulnerabilità.

Federico Pozzoli: ‘Because the world is all interconnected’: Immobilità e reti narrative globali nel fantastico arabo contemporaneo

L’intervento propone una lettura di tre testi pubblicati recentemente in lingua araba in cui personaggi frammentari e costretti in una dimensione geografica limitata assumono, attraverso le tecniche del fantastico, la prerogativa di muoversi narrativamente in uno spazio globale. La riflessione  dal racconto ‘L’archivio e la realtà’ (2012, ma pubblicato inizialmente in traduzione inglese nel 2010) in cui lo scrittore iracheno/finlandese Ḥasan Blāsim presenta un’intervista per l’asilo politico del tutto paradossale: anziché raccontare il proprio viaggio, il richiedente-protagonista abbandona il proprio ruolo di vittima/testimone e ricostruisce invece una catena globale di responsabilità per la guerra civile irachena che da Baghdad arriva rapidamente a Londra. Nel romanzo Ḥaqāʾiq al-ḥāyat al-ṣaghīra (Le piccole verità della vita, 2021) dell’iracheno Luʾayy Ḥamza ʿAbbās, un adolescente isolato nella Bassora bombardata degli anni Ottanta cerca una via di fuga comunicando con una sorta di rete globale formata dai cunicoli dei topi, che disegna una cartografia parallela e opposta a quella ultranazionalista della guerra. Infine, il romanzo Māʾsāt al-sayyid Maṭar (La tragedia del Signor Matar, 2017) del palestinese con cittadinanza israeliana Majd Kayyāl, ruota attorno a un protagonista nato morto, ‘abortito’ dall’autore all’inizio della storia mentre cerca di nuotare nel mare di Haifa ‘come gli israeliani’ (p. 4). Anche in questo caso, il romanzo mette in parallelo la completa immobilità del protagonista (che agisce nella storia ma non esiste) e la costruzione ossessiva di relazioni e flussi narrativi globali, qui anche attraverso un’intertestualità esasperata.

Nei tre casi, il fantastico viene usato per costruire personaggi marginali, non completamente soggetti e incapaci di muoversi e migrare (o di ‘completare’ la migrazione, nel caso di Blāsim). Al tempo stesso, però, proprio questa frammentazione viene fatta coincidere con l’esperienza di una inquietante ‘oneworldedness’ che Emily Apter (2014: 71) chiama ‘paranoid globalism’.

Nicoletta Brazzelli: Oltre i confini: il deserto in The English Patient di Michael Ondaatje

I racconti di esplorazione del deserto – spazio geografico (e immaginativo) estremo per eccellenza – comprendono tropi rappresentativi coloniali, pur mettendoli in discussione, a causa del presunto vuoto che caratterizza il territorio desertico. Il romanzo più famoso di Michael Ondaatje, The English Patient, pubblicato nel 1992, il cui adattamento cinematografico diretto da Anthony Minghella nel 1996 ha vinto 9 premi Oscar, intreccia l’ambientazione nella villa toscana dove il paziente inglese senza nome, poi associato alla figura dell’avventuriero ungherese László Almásy, giace immobile, con il deserto libico ed egiziano che riemerge dalle sue intricate memorie.

Fra i numerosi sottotesti e intertesti che alimentano la narrazione, le Storie di Erodoto hanno un ruolo cruciale e si intersecano con antichi scritti arabi oltre che con opere della tradizione letteraria inglese ed europea. La compressione spazio-temporale permette la raffigurazione simultanea dell’ex-convento ed ex-ospedale in rovina nei dintorni di Firenze alla fine della seconda guerra mondiale, delle spedizioni archeologiche in Nord Africa promosse dalla Royal Geographical Society negli anni Trenta, e di altri cronotopi (legati a Gran Bretagna, Canada e India).

Il contributo al convegno intende soffermarsi sul discorso dell’esplorazione del Gilf Kebir da parte del gruppo di appassionati viaggiatori rievocati dal paziente inglese, ossessionati dalla ricerca dell’oasi di Zerzura, un sito leggendario le cui iscrizioni murali rivelerebbero un inaspettato antico mondo acquatico.

La comunità immaginaria degli esploratori europei ‘senza nazione’, e la tragica avventura amorosa di Almásy e Katharine, mettono in scena il desiderio coloniale, un passato remoto misterioso e anche la multiculturalità postcoloniale – Ondaatje del resto è originario dello Sri Lanka, è cresciuto a Londra ed è ora un cittadino canadese. Fra le dune si fondono e si dissolvono geografia, storia e immaginazione; il deserto diventa l’emblema della contaminazione: al suo interno, l’identità viene continuamente rinegoziata e ibridata, la sabbia costituisce un rifugio, anche se, o forse proprio perché, senza confini, ma è potenzialmente letale.


22 marzo – Giorno 2

9:30-11:00 – Panel 2

Chair: Dino Gavinelli

Elena Ogliari: Oltre la paura di vivere? Un percorso tra le riscritture in forma breve di “Eveline” di James Joyce

Questo intervento nasce da un laboratorio di orientamento (D.M. 328/2022) incentrato su “Eveline” di James Joyce e le sue riscritture, che ho condotto con gli studenti del quinto anno di un Istituto Tecnico Tecnologico di Milano. Particolare attenzione è stata rivolta alle sensazioni suscitate dalla frase “All the seas of the world tumbled about her heart”, posta al termine della narrazione, la quale sembra alludere alla paura di Eveline di annegare nella vita, significando metaforicamente la paura di vivere appieno. In principio, quest’interpretazione dell’immagine joyciana dell’annegamento ha provocato lo scontento tra gli studenti, acuito dall’assenza di distacco (detachment) tra il lettore ed Eveline: Joyce costruisce il racconto in modo che la nostra simpatia per la protagonista sia così intensa da portarci a credere che la sua fuga con Frank sarebbe stata trasformativa.

Inoltre, l’insoddisfazione iniziale per la decisione di Eveline di non scappare in Sud America ha dato il via a un’analisi più approfondita della narrazione, la quale ha svelato una risonanza tra il dilemma di Eveline e quelli relativi alle eventuali scelte di vita compiute, o da compiere, dei lettori. Si è compreso infine che Joyce, attraverso le sue complesse strategie testuali e narrative, presenta in “Eveline” una rappresentazione demistificata dell’emigrazione, poiché la ragazza, gravata da obblighi, non ha alcuna vera possibilità di scelta. Il dibattito su se Eveline debba o meno fuggire con Frank è irrisolvibile, perché il narratore non implica che un’opzione sia migliore dell’altra.

Joyce elabora una narrazione che evoca profonde ansie condivise sia dalla protagonista che dai lettori, la cui insoddisfazione trova – ritengo – un riflesso e attenuazione nelle riscritture contemporanee di “Eveline”. Per approfondire questi aspetti, l’analisi qui proposta si articola in due parti principali. In primo luogo, un esame delle strategie narrative di Joyce mira a gettare luce sul senso di paralisi e di agenzia limitata sperimentato sia da Eveline che dal lettore.

In secondo luogo, il paper esplora come la rappresentazione dell’emigrazione priva di retorica di Joyce e l’angoscia suscitata dalla lettura del racconto siano di stimolo agli scrittori di racconti ancor’oggi. Esempi significativi di riscritture contemporanee di “Eveline”, in ambito irlandese, sono “Emma Jane” di Éilis Ní Dhuibhne (2004-5), “The Parting Gift” di Claire Keegan (2007) e “Evelyn” di Donal Ryan (2014). Questi racconti, ambientati nell’Irlanda del XXI secolo, forniscono nuove prospettive sulla migrazione e i processi decisionali sottostanti, mostrando l’influenza duratura e la contemporaneità dell’opera di Joyce nel contribuire a una comprensione sfumata della loro complessità. Al contempo, rivelano il nostro aggrapparsi alla possibilità, anche minima e talvolta illusoria, di muoverci oltre la stasi.

Andrea Meregalli: Memoria e identità tra Isole Faroe e Danimarca nel romanzo Ø di Siri Ranva Hjelm Jacobsen

Nel suo romanzo d’esordio Ø (Isola, 2016) la scrittrice danese Siri Ranva Hjelm Jacobsen (n. 1980) affronta il tema della migrazione dalle Isole Faroe alla Danimarca. Ispirandosi alla propria storia, come rappresentante della terza generazione di una famiglia originaria dell’arcipelago atlantico, Hjelm Jacobsen fa ripercorrere alla narratrice le vicende familiari nel corso di oltre mezzo secolo, fino ad oggi, ricostruendo e intrecciando le esperienze delle generazioni precedenti con la propria prospettiva contemporanea, soffermandosi su temi come l’esilio, il senso d’appartenenza, l’assimilazione culturale.

Isole Faroe

Lo scopo di questo contributo è concentrarsi, in particolare, sul punto di vista della narratrice per studiare come la prospettiva storica si riverberi sul presente, e dunque sul futuro, nello sforzo di preservare una memoria messa a repentaglio dalla distanza temporale ma tuttora percepita come tassello imprescindibile per la costruzione della propria identità e dell’autopercezione di sé nella relazione con l’Altro. 

Ci si interrogherà altresì sul legame tra queste urgenze tematiche e il lirismo che caratterizza lo stile del romanzo.

Michael Lioi: Saperi migranti: quando il libro osò sfidare la canna da zucchero. Lettura di La Panse du chacal di Raphaël Confiant

La comunicazione intende esplorare il fenomeno migratorio all’interno dello spazio caraibico di espressione francese, rivolgendo maggiore attenzione alle migrazioni di tipo volontario. In La Panse du chacal (2004), Raphaël Confiant ripercorre le principali tappe che hanno condotto la popolazione indiana a raggiungere la Martinica e, all’interno della narrazione, introduce l’esperienza di un giovane istitutore proveniente dalla Francia metropolitana, Théophile. Il nuovo istitutore, a differenza della popolazione africana prima e indiana poi, decide liberamente di lasciare la Francia per portare a termine una missione: permettere alle popolazioni ormai libere dalla schiavitù di poter reintegrare l’umanità. La migrazione di Théophile si inserisce in un periodo storico particolarmente significativo nella storia dei Caraibi francofoni: l’abolizione della schiavitù avvenuta nel 1848. Per fronteggiare il numero crescente di discenti nelle scuole – ricordiamo che più della metà della popolazione aveva ottenuto lo statuto di “cittadini liberi” –, il governo repubblicano decide di fare appello agli istitutori francesi, che avrebbero così effettuato il servizio in uno dei possedimenti d’oltremare. Da questo punto di vista, l’esperienza di Théophile differisce dunque dalle forme di migrazione involontaria e semi-volontaria più conosciute all’interno degli studi letterari antillesi, che ben si dispiegano nel romanzo. Le sue idee repubblicane, a difesa di una scuola obbligatoria per tutti, susciteranno la derisione degli altri istitutori e, soprattutto, la collera dei proprietari dei campi di canna da zucchero. L’istruzione, infatti, avrebbe allontanato i giovani indiani dal lavoro nei campi, fonte principale dello sviluppo economico dell’isola. In questo modo si manifesta, all’interno del testo, una rigida opposizione che vede al centro i diritti di tutta la popolazione coloniale, con cui solo Théophile – attraverso la sua azione – è in grado di simpatizzare.  

11:30-12:30 – Keynote 2

Chair: Nicoletta Vallorani

Giulia de Spuches: Vertici, Vortici, Abissi. Geografie mediterranee della migrazione

Negli spazi marittimi mediterranei della scia violenta (Sharpe 2016), l’Europa agisce da spettatore come se i naufragi fossero un elemento della natura, mentre sono fenomeni di una storia di cui l’Europa è attrice. I naufragi sono registrati da una rappresentazione che immagina lo spazio marittimo come statico, liscio, topografico e cartografico. Le tracce invisibili ma visibili raccontate da Gian Maria Bellu (2004) o, più recentemente, da Heller e Pezzani (2014) ci ricordano che “il mare non è davvero uno spazio dimenticato” (Steinberg, 2021).

Partendo da una riflessione sulla performance “And Europe dehumanized itself” (de Spuches, 2013) – in cui lo spazio/tempo degli Stati Uniti schiavisti (Morrison, 1987) e quello della Fortezza Europa oscillano tra le acque dell’Ohio e quelle del Mediterraneo – il contributo intende esaminare il naufragio attraverso l’opera di Zizola “Depth of Silence” (2014) e il progetto di Buchel “Barca Nostra, the boat beyond the sea” (2019).

Vengono qui messi a confronto due abissi: da un lato, quello del mare con il suo silenzio e la vita che utilizza il barcone per nuove biologie; dall’altro, l’abisso interpretato dalla disumanizzazione dell’Occidente oltre il mare.

Pranzo a buffet

14:15-14:30 – Presentazione mostra fotografica

Made in Romania di Barbara Barberis

Mia madre è nata nel 1939 in Romania, dove ha vissuto fino all’età di dodici anni. I suoi antenati, originari di Parma, come molti italiani dell’epoca, si erano trasferiti nella seconda metà dell’800 in Dobrugia, la “California romena”, in cerca di fortuna come minatori nelle cave di pietra di Greci. Zona dove tutt’ora risiede una comunità Italo-romena, testimonianza di un passato in cui, contrariamente a quanto accade oggi, l’emigrazione avveniva dall’Italia verso la Romania. Nel 1951, durante il periodo della Repubblica Socialista mio nonno Luigi, rimasto solo con mia madre, fu obbligato a scegliere tra la cittadinanza romena e quella italiana, decise allora di stabilirsi in Italia. In seguito, tra la metà degli anni ’60 e la metà degli anni ’70, durante le vacanze estive, tornarono più volte in Romania in visita ai parenti rimasti. Nel 1977 mio nonno tornò, da solo, definitivamente in Romania per trascorrere la sua vecchiaia, dove morì un mese dopo la mia nascita. Poco dopo i miei genitori, con me appena nata, decisero di far visita alla sua tomba a Sebiş.

Nell’estate del 2011, 34 anni dopo, abbiamo nuovamente intrapreso un viaggio in Romania. L’itinerario attraverso tutto il paese, da Arad fino alle coste del Mar Nero, è stato scandito dalle visite ai parenti con i quali nel tempo mia madre aveva mantenuto i contatti, e dalle tappe nei luoghi dove era cresciuta. Ho affrontato questo viaggio con la curiosità di chi scopre una realtà completamente nuova, anche se da sempre presente nella mia vita attraverso i racconti di mia madre.

Ho fotografato tutto ciò che ha colpito la mia attenzione senza la pretesa di farne un reportage documentaristico. Ma inevitabilmente, nel corso del viaggio, si faceva sempre più evidente il profondo legame tra la mia storia personale, sospesa tra ricordo del passato e scoperta del presente, e quella del paese che stavo attraversando. Un paese in continua sospensione tra un’eredità storica ancora molto forte ed un futuro incerto. Così a poco a poco alcuni elementi del retaggio storico romeno hanno incominciato ad entrare come protagonisti tra le istantanee di questo diario di viaggio e a fondersi con le storie personali della mia famiglia. Il paesaggio attuale romeno mostra infatti evidenti i segni del suo vissuto storico.

Uno degli elementi più emblematici di questo passato è forse l’automobile Dacia, che iniziò la sua produzione in Romania nel 1968, e il cui primo esemplare fu donato proprio all’allora presidente della Repubblica Socialista Nicolae Ceausescu. Così tra i luoghi in cui mia madre ha vissuto – la scuola dove ha studiato da bambina, la casa dei nonni paterni in cui ha trascorso le vacanze estive dell’infanzia, o la zona del delta del Danubio dove ha vissuto gli ultimi anni della sua permanenza in Romania – ho fotografato anche molte di queste automobili, che costituiscono tutt’ora un elemento dominante del paesaggio urbano e rurale romeno, offrendo una sorta di rappresentazione simbolica della sua eredità storica. I vari modelli dei diversi periodi in cui ci si imbatte un po’ ovunque, possono infatti apparire come i livelli stratificati di uno scavo archeologico in cui ogni singola epoca è caratterizzata da un suo stile tipico e ben definito.

14:30-16:30 – Panel 3

Chair: Laura Scarabelli

Paolo Caponi: Sì, viaggiare… Una poesia per altri mondi

L’uso di sostanze allucinatorie con finalità propedeutiche alla scrittura poetica ha accompagnato, con qualche remissione e rimozione, la storia della poesia stessa. Se la mente corre immediatamente a Kubla Khan (1816) di Coleridge, è giusto affermare che esso rappresenti solo il caso più noto, ma non per questo unico, di visione “indotta” (dall’oppio, in questo caso) di mondi “altri”. L’associazione di Dante ai Fedeli d’Amore, per esempio, comportava l’assunzione di bevande “medicinali”, alle quali peraltro lo stesso Dante poteva avere facile accesso vista la sua militanza nella corporazione dei medici e speziali (Reynolds 2006: 12; 23). Il percorso, tuttavia, è anche percorribile in senso uguale e contrario. In America, tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, apparvero alcuni studi che sottolinearono, con approccio scientifico, la natura allucinatoria del componimento poetico, esplorando la possibilità insita in alcuni testi di indurre stati semi-ipnotici nel lettore in virtù di alcune loro caratteristiche peculiari. 

Il mio contributo intende esplorare l’argomento in entrambe le direzioni

Elisabetta Di Minico: L’esperienza migrante nei mondi supereroistici: raccontare i margini e l’alterità attraverso la nona arte

Mescolando perfettamente narrazione letteraria, “esperienza visiva” e “percezione estetica” (Esiner), i complessi e affascinanti mondi della nona arte sono un mezzo spaziale e concettuale originale, avvincente e utile per un’analisi sull’alterità e sull’esperienza migrante. Il fumetto supereroistico racconta spesso le paure, i pregiudizi, le speranze e i sogni che circondano le migrazioni e trasporta, con più o meno metaforico lirismo, in mondi fantascientifici le lotte e i problemi che affrontano ogni giorno milioni di persone “illegali” o escluse. Promuove inclusione ed empatia, attaccando i sistemi sociopolitici che permettono discriminazione, ingiustizie, razzismo, misoginia, omofobia, etc.

Il modo in cui le trame trattano supereroi, mutanti, alieni, robot e mostri naturali o artificiali, infatti, riflette generalmente il modo in cui la società tratta le varie categorie rifiutate dell’alterità, come le minoranze etniche o sessuali. Il paper proposto vuole riflettere sulla condizione migrante reale proprio attraverso lo studio di alcuni iconici personaggi immaginari migranti, stranieri o marginalizzati, dal celeberrimo Superman, incarnazione del mito americano ma arrivato sul pianeta Terra dal pianeta Krypton, a più recenti eroi ed eroine come Miles Morales/Spider-Man (primo Spider-Man afro-latino), Kamala Khan/Ms. Marvel (supereroina pakistano-statunitense) o America Chavez/Miss America (supereroina queer di origini latino-americane). 

Anna Pasolini: “Una spirale meravigliosa”. Storytelling oltre la fine del mondo in The Archive of Alternate Endings di Lindsey Drager

Le fiabe sono “macchine del desiderio” mutevoli e malleabili, la cui magia è in grado di esaudire un’ampia gamma di desideri nascondendo abilmente il suo artificio, ma le cui formule lasciano trasparire i meccanismi di privilegio e repressione su cui si basano (Bacchilega 1997: 5-7). In quanto racconto stratificato, fatto di frammenti e versioni che si sono accumulati, mescolati e “gelificati” nel tempo (Zipes 2001: xi) e che ha svolto diverse funzioni sociali più o meno tese a consolidare o a rovesciare le gerarchie di potere attraverso la storia, la fiaba è sempre stata oggetto di appropriazione e manipolazione. Proprio per queste caratteristiche, e in particolare per la tensione latente fra finalità normative, volte a consolidare il consenso, e impulsi emancipanti e trasformativi (Bacchilega 1997: 24), la fiaba continua a costituire un serbatoio a cui attingere per rappresentare le traiettorie di percorsi identitari eccentrici, eversivi, non allineati.

Immagine per intervento Pasolini al convegno Geolitterae 2024

La riflessione che intendo sviluppare analizzando il romanzo The Archive of Alternate Endings di Lindsey Drager (2019) si innesta su questo palinsesto ed è volta a indagare alcuni snodi narrativi e politici che si articolano attorno all’idea della migrazione testuale e della costruzione di uno storytelling non lineare, che si avvolge su sé stesso come una spirale, tornando ciclicamente al punto di partenza senza mai arrivare a destinazione o chiudere il cerchio. Drager costruisce un’impalcatura narrativa complessa, che si dipana nell’arco di quasi un millennio (tra il 1378 e il 2365), e rivede, richiama e reinventa la fiaba di “Hansel e Gretel” proiettandola in diversi momenti emblematici che coincidono con i passaggi regolari della cometa di Halley (visibile dalla Terra ogni 76 anni circa).

Dosando abilmente gli ingredienti a sua disposizione per creare la propria ricetta (Carter 1990: 10), Drager rivisita la composizione della versione letteraria consacrata nella memoria collettiva dai fratelli Grimm (o meglio, l’operazione di selezione e cancellazione alla radice della loro impresa filologica), ricostruisce la diramazione delle sue radici nella tradizione orale, e immagina alcuni suoi sviluppi futuri. Il racconto infatti prolifera avanti e indietro nel tempo attraverso una serie di storie che hanno in comune relazioni tra fratelli e che si snodano intorno ad alcuni temi chiave, tra cui lo stigma sociale legato all’omosessualità, e più in generale a comportamenti devianti rispetto agli standard di genere normalizzati, il potere delle storie, che sopravvivono all’estinzione del genere umano, la costruzione culturale della malattia, la creazione di legami familiari e di cura al di fuori della consanguineità

The Archive of Alternate Endings ci guida lungo un vortice che attraversa spazio, tempo e immaginari, che sconfina tra vari generi letterari, e che, proprio grazie a questo movimento non lineare e virtualmente infinito, ci consente di rileggere e rimettere in discussione il passato e le sue costruzioni discorsive, di mettere a fuoco il presente da una pluralità di punti di vista e di poter guardare al futuro in modo più molteplice e variegato. L’iterazione e la reiterazione intrinseche alle fiabe e riprodotte nell’archivio alternativo di Drager restituiscono alle storie quella vitalità trasformativa adatta a rappresentare una, anzi, molte, “narrative del sé” (Hall 1992: 277) situate, frutto dei percorsi tortuosi, mutevoli e contraddittori dell’identificazione. 

Nicoletta Vallorani: Di madri e d’acqua. La poetica del ritorno nella fantascienza africana

La centralità del viaggio nelle narrazioni africane si dipana a partire dalla black diaspora come cesura radicale che tende a riflettersi in tipologie di storie diverse, tutte legate al fantasma di una deportazione il cui trauma deve essere ancora elaborato. Le riflessioni di Saidyia Hartman nel suo Lose Your Mother (Hartman 2007) sono preziose e combinano la percezione di una storia individuale fratturata con una storia più ampia e collettiva che viene declinata in modi diversi. Nel mio contributo prendo in considerazione il genere frastagliato della speculative fiction esaminando i modi in cui, nella cornice di un sistema formulaico consolidato ma fortemente marcato come bianco, maschio e occidentale, alcune scrittrici riscrivono i percorsi di un ritorno che si articola attraverso le dimensioni del tempo e dello spazio, utilizzando funzionalmente e in una prospettiva decoloniale strategie compositive familiari, combinandole in modi insolite. Octavia Butler, Nnedi Okorafor, Nerine Dorman e altre raccolgono una eredità complessa che appartiene al fantastico africano, mai assente anche nella letteratura cosiddetta realistica e ben spiegata dallo stesso Soyinka in “The Fourth Stage: Through the Mysteries of Ogun to the Origin of Yoruba Tragedy” (Soyinka 1990). Resta intatta, in tutte queste narrazioni, la ferita di un viaggio nel quale l’annegamento è perdita ma anche – come suggerisce Alexis Pauline Gump – anche recupero di una matrice di condivisione e momento di nuova nascita. 

16:30-17:00 – Presentazione progetto

Il viaggio di Roland Deschain nella saga La Torre Nera: un’analisi transmediale di Cecilia Di Martino

Stephen King, celebre autore dell’orrore, ha dato vita tra il 1970 e il 2012 al suo “magnum opus”: il ciclo de La Torre Nera, composto da 8 libri, 85 fumetti, un film e un videogioco. Questo vasto multiverso offre una trama intricata in cui la geografia si intreccia con la narrazione, come indicato dalla frase emblematica che apre e chiude il ciclo: «L’uomo in nero fuggì attraverso il deserto, e il pistolero lo seguì». 

Questo intervento esplora il viaggio epico di Roland Deschain nella saga de La Torre Nera, focalizzandosi sull’importanza della geografia e dell’interpretazione simbolica. In un Medio-Mondo in declino, Roland, l’ultimo pistolero discendente di Arthur Eld, cerca la Torre Nera, fulcro del tempo e dello spazio, dove la geografia non è solo sfondo ma elemento fondamentale della trama. Si inizia considerando la geografia del Medio-Mondo, con il crollo dei Vettori che porta alla comparsa delle thinnies, nebbie che creano non-luoghi tra i mondi. La geografia diventa così un personaggio dinamico che influenza il destino di Roland e del mondo che lo circonda. L’analisi si estende all’interpretazione simbolica del viaggio di Roland. Seguendo un percorso ascetico simile a quello di un cavaliere arturiano, Roland affronta prove sacrificando relazioni umane e tradendo valori sacri. Il concetto di Ka, traducibile come “destino”, arricchisce ulteriormente questa interpretazione simbolica. Si esplora anche il concetto di khef, la forza che unisce il Ka-tet di Roland, e la sua rottura correlata alle sue scelte, interpretata come riflesso delle azioni umane sulla geografia e sull’ordine universale. La Torre Nera e la Rosa da salvare assumono un ruolo simbolico di grande rilevanza, rappresentando rispettivamente il maschile e il femminile, e le polarità necessarie per un universo in equilibrio. 

 In conclusione, questa analisi mette in luce l’intreccio tra geografia e simbolismo nel viaggio di Roland Deschain, mostrando come la geografia non sia solo uno scenario ma un elemento dinamico che riflette e influenza il destino del protagonista, mentre l’interpretazione simbolica svela strati più profondi di significato nella saga de La Torre Nera

Conclusioni

Con la partecipazione della Redazione 2024 del Laboratorio Geolitterae

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