Abbiamo intervistato Simone Ferrari, ricercatore presso l’Università degli Studi di Milano e autore dello studio Armed conflict and resistance in indigenous Colombia – The linguistic landscape of Toribío (Cauca).
Dagli anni ’60, il dipartimento di Cauca in Colombia è scosso da conflitti armati tra governo, armate rivoluzionarie e narcotrafficanti, che controllano vaste piantagioni di coca e marijuana. In questo difficile contesto, la popolazione nativa Nasa subisce ogni genere di sopruso e violenza.
Nel suo saggio, Simone Ferrari presenta un’analisi del linguistic landscape di Toribío (Cauca), caratterizzato da graffiti e murales realizzati dai nativi Nasa e dai gruppi paramilitari. La realizzazione e la sovrapposizione di simboli, disegni e tag sui muri degli edifici, costituisce un’autentica espressione grafica e verbale del conflitto che interessa la regione da decenni, ma soprattutto una testimonianza della resistenza viva e non-violenta dei Nasa.
Attraverso queste forme di linguistic landscape, i Nasa esprimono il loro dissenso verso l’occupazione militare, rivendicano il territorio coprendo o modificando i graffiti dei gruppi armati, e reclamano con decisione la propria identità.
L’intervista
Dott. Ferrari, lei ha iniziato e completato il suo percorso di studi all’Università degli Studi di Milano, conseguendo il dottorato in collaborazione con la Pontificia Universidad Javeriana. Come si è svolto questo suo dottorato intercontinentale?
In quanto studente di lingue e letterature straniere ho sempre avuto un interesse duplice: imparare nuove lingue e mondi letterari, ma anche vivere e conoscere le realtà di riferimento. Sia perché ovviamente c’è una questione di pratica linguistica necessaria per imparare la lingua, sia per la curiosità verso i due mondi che ho studiato a livello culturale: l’America di lingua spagnola e anche la Russia, dove ho trascorso un anno tra la triennale e la magistrale. In magistrale ho avuto la possibilità di svolgere quello che si chiama mobilità, che sarebbe l’equivalente dell’Erasmus per l’America latina. Ho trascorso un semestre in Colombia, nella stessa università, la Javeriana, dove poi ho svolto il dottorato.
Ovviamente, per il mio tipo di ricerca dottorale era necessario innanzitutto confrontarmi con altre persone che affrontano gli stessi temi, quindi la questione culturale indigena, che viene trattata molto poco in Italia e che inevitabilmente è molto più viva in Colombia, soprattutto perché il mio obiettivo era quello di studiare più le culture e le letterature nella loro vivenza contemporanea. Mi piaceva l’idea di confrontarmi con altre persone che si dedicano a questo. In Colombia ce ne sono molte di più e molti studiosi mi hanno aiutato.
D’altra parte, c’era anche la questione della vita quotidiana e della conoscenza della comunità attraverso i viaggi nei territori indigeni, soprattutto perché lo spazio di trasmissione della conoscenza più importante di queste comunità è il racconto orale. Ovviamente non si può studiare nei libri, ma si può solo conoscere ascoltandolo e viaggiando nei territori. Anche per questo è stato fondamentale viaggiare in Colombia. In generale, la grande maggioranza della ricerca degli studi letterari e culturali in America Latina ha una vicinanza stretta – direi maggiore che in Europa – con le situazioni sociali di riferimento, perché c’è più contiguità tra le storie culturali e letterarie dei popoli e le loro storie sociali: non c’è mai lo scrittore che vive isolato nella sua torre d’avorio, è sempre una letteratura e una produzione culturale socialmente viva e quindi, vivendola lì si può percepire in sfumature più ampie.
Nei suoi studi parla in particolare dei Nasa nella “ciudad perdida”, ossia Toribìo, e dei conflitti che essi hanno con i narcotrafficanti. Come è venuto a conoscenza di questa situazione e come mai ha deciso di renderla il suo principale oggetto di studio?
Dunque, quello è il contesto in cui ho realizzato i miei studi, ed è un contesto sociale che va molto più in là rispetto a ciò su cui mi sono concentrato io, ovvero la questione culturale e letteraria. Infatti, poi, ho dedicato una parte della mia attività, non di ricerca, ma di divulgazione giornalistica, a quella storia. Come ci sono arrivato? Avevo realizzato una tesi magistrale cercando delle narrazioni della storia della violenza in Colombia, in particolare relativa al narcotraffico, che fossero alternative a quelle dominanti, alle rappresentazioni che conosciamo dalle serie tv, dove il narcotrafficante è l’antieroe urbano con un misterioso fascino anti-istituzionale. Sono narrazioni che hanno sempre lasciato indietro le regioni della Colombia in cui le persone soffrono di più la situazione del narcotraffico: le zone di produzione della coca e della marijuana. La zona dove stavo io era più una zona di produzione della marijuana, sempre in mano a questi grandi cartelli internazionali, che gestiscono un enorme traffico continentale.
Inizialmente non avevo affrontato la questione indigena: mi interessava trovare delle voci alternative che raccontassero la problematica del narcotraffico, al di là di queste figure paramitologiche dei grandi capi dei cartelli di Medellín o di Cali. Mi sono quindi imbattuto nella comunità Nasa, la prima comunità capace di scacciare, pur senza armi, i narcotrafficanti dai loro territori. Non ci è riuscita completamente, infatti anche nell’articolo che vi ho dato (n.d.r. vedere materiali di riferimento a piè di pagina) si raccontano due storie: una in cui le comunità indigene collaborano coi narcotrafficanti, e un’altra in cui invece sono riusciti con una particolare tecnica di controllo del territorio a liberare la regione dai gruppi armati. Mi sembrava una storia particolarmente rilevante perché si tende a pensare, nella narrazione del narcotraffico, che tutti siano collaboratori o vittime inermi, come se non ci fosse la possibilità di resistere o di difendersi. Una situazione comparabile con la narrazione della mafia in Italia. Per cui la storia era valida per mostrare che a livello sociale intanto c’è un’alternativa, data in primis dal proprio modo di concepirsi come individui in comunità, capaci di produrre una forza sociale enorme. Perché la peculiarità di queste comunità indigene, i Nasa, è proprio il concepirsi come un soggetto che non può esistere al di fuori della comunità.
Il quadro del conflitto fra Nasa, narco-trafficanti e il governo risulta complesso. Potrebbe riassumerlo per chi sente parlare di questa realtà per la prima volta? Vede una possibile risoluzione di questo conflitto o crede che la comunità internazionale debba intervenire?
Dunque, premesso che il mio interesse primario non sono le scienze politiche, ma quello è il contesto politico e sociale che ho conosciuto, per cui esprimo la mia opinione, pur considerando che io mi occupo nello specifico della questione culturale legata al narcotraffico e non della vicenda politica. Riassumo brevemente ciò che vive la popolazione Nasa, quindi una popolazione di 240.000 persone delle Ande colombiane – consideriamo che ci sono 115 popoli indigeni in Colombia, che rappresentano 2 milioni di persone e ognuno di questi popoli ha una storia diversa della relazione col conflitto, per cui non posso fare un discorso generale.
Possiamo dire che in Colombia dal 1964 esiste un conflitto armato fra gruppi guerriglieri comunisti, Stato e apparati paramilitari affiliati allo Stato, a cui si è aggiunta un’ulteriore problematica a partire dagli anni Settanta, che è quella dei gruppi armati che controllano il narcotraffico. In questo quadro, alcuni gruppi mafiosi si sono alleati con alcuni degli attori armati partecipanti al conflitto politico. Nel caso del Cauca, da circa dieci anni, nei territori Nasa si è prodotta un’alleanza specifica tra un gruppo guerrigliero (dissidenze delle FARC “Dagoberto Ramos) e un gruppo narcotrafficante.
La popolazione Nasa si è ritrovata costretta a convivere con un gruppo armato che esercita il controllo territoriale militare e che inoltre agisce come gruppo mafioso nel controllo della produzione illegale della droga. Gli indigeni locali soffrono quindi un doppio livello di subordinazione: da una parte quella politica – non possono esercitare la propria autonomia, di cui i popoli indigeni in Colombia avrebbero diritto, dalla Costituzione del ’91, ad avere un’autonomia politica nei loro territori, che non esiste nei fatti perché sono subordinati a diversi gruppi armati – e in più devono sottostare alle pratiche di produzione illegale della droga.
È una situazione molto complessa, e le popolazioni indigene sono le uniche ad essere riuscite a trovare una soluzione, una forma di resistenza, considerando che quasi tutte le zone rurali della Colombia convivono con questo problema. Ovviamente nelle zone rurali non vivono solo popolazioni indigene: vivono popolazioni afro-discendenti, popolazioni mestizas, contadine, non marcate etnicamente. In generale, in tutte le altre aree, la popolazione soccombe ai gruppi armati, dato che hanno il potere delle armi e della violenza.
Invece la comunità Nasa è riuscita a costituire una particolare forma di resistenza e di controllo territoriale, quella della Guardia Indigena, attraverso cui hanno potuto scacciare o arrestare i gruppi armati – narcotrafficanti legati a gruppi politici rivoluzionari o contro-rivoluzionari, a seconda della zona – e per cui sono riusciti in qualche modo a trovare una soluzione interna, considerando che in tutto questo lo Stato non è riuscito, non ha voluto, o non è stato capace – a seconda delle interpretazioni – di intervenire. L’intervento internazionale esiste dal ’99, il cosiddetto Plan Colombia: un piano di intervento degli Stati Uniti, in cui hanno investito diversi miliardi di dollari nel tentativo di smantellare le organizzazioni che controllano il narcotraffico, la produzione della pianta della coca e quindi la fabbricazione della cocaina in queste aree. Ma il risultato è stato che in questi vent’anni la produzione di cocaina è aumentata e i campi di coltivazione sono aumentati. Quindi, l’intervento internazionale degli Stati Uniti non è stato assolutamente efficace, al contrario, non ha prodotto alcun tipo di risultato, se non quello di avvelenare i territori rurali con il glifosato.
Lei ha citato il termine palabrandar proposto dalla scrittrice Nasa-Misak Vilma Almendra nel meccanismo di connessione tra azione e parola, potrebbe approfondire questo concetto?
Questo è un concetto alla base della concezione e della forma di vedere il mondo della comunità Nasa. Ovviamente non si può mai parlare di un pensiero generico di una comunità, ci sono sempre contrasti interni, e il sapere comunitario non è un sapere condiviso da tutta la comunità. Tuttavia, vi sono alcuni caratteri comuni che ho individuato viaggiando nel territorio: si nota che l’uso della parola scritta è funzionale a un obiettivo comunitario, una concezione diversa della parola scritta rispetto a quella che si può costruire nel mondo “occidentale”.
Intendo dire che il palabrandar riassume una concezione dell’atto comunicativo come un atto necessario per trasformare in meglio la comunità. Come dice il sapere Nasa:: “la parola senza azione è vuota, l’azione senza parola è cieca, parola e azione fuori dallo spirito comunitaria sono la morte”. Questo sintetizza la prospettiva del palabrandar, che significa “far camminare la parola”. Le comunità indigene andine non utilizzavano la scrittura alfabetica fino ai contatti con gli spagnoli. Quando hanno cominciato a utilizzarla spesso ha assunto il valore di forma di resistenza, di risposta ai tentativi di conquista culturale. Hanno assorbito uno strumento che veniva da fuori per poterlo usare per conservare ed esprimere la propria concezione di vedere il mondo. La parola scritta per la comunità Nasa è sempre direzionata a beneficio della comunità. Può sembrare una cosa molto astratta, però per esempio l’uso del murales ha tutta un’implicazione molto diversa da quella che si ha negli spazi urbani, anche nell’America Latina stessa. Se uno viaggiasse senza conoscere la concezione del palabrandar, non capirebbe il valore dei murales Nasa. Invece con la guida del sapere locale, delle persone che lo trasmettono, si può comprendere che la parola è sempre un’azione che serve a beneficio della comunità.
I murales usati per cancellare i graffiti dei gruppi armati sono un esempio di cosa significhi “parola di resistenza”. La concezione di palabrandar pensa la parola come collettiva: non è mai associata a una persona, non è mai di proprietà di qualcuno, ed è sempre vincolata a un’azione. La parola deve sempre camminare non solo in senso fisico, ma anche nello spazio pubblico, in senso metaforico. Per esempio, nelle comunità indigene Nasa è molto importante che una persona studi in università fuori dalla comunità e che ritorni, portando la parola che viene da fuori. Studiare diritto, studiare economia, studiare questioni legate all’ambiente permette di avere alcuni strumenti in più, non solo quelli del sapere comunitario, per poter contribuire sempre all’azione comunitaria. La parola è sempre intesa in senso filosofico: può essere quella di un testo studiato in università, ma deve essere sempre portata all’azione. È un atto pratico che serve di beneficio alla comunità, questo è un po’ il senso del palabrandar.
Ricollegandoci all’interazione tra la popolazione locale e i colonizzatori, nell’ottica post-coloniale l’adozione della lingua dei colonizzatori significa piegarsi alla dominazione straniera. Si può ancora parlare di identità nasa in un contesto in cui l’uso della lingua spagnola è prevalente? E perché è importante preservare l’identità Nasa?
La domanda è interessante. A mio parere non è automatico che utilizzando la “lingua del colonizzatore” – tra virgolette perché fortunatamente ora lo spagnolo non è più la lingua del colonizzatore – si soffra un processo di subalternità; infatti lo spagnolo, una lingua che viene da fuori, può essere modellato al modo di vedere il mondo dei Nasa. Questo è quello che fa la scrittrice Vilma Almendra, che utilizza tutte le strutture del pensiero Nasa, le concezioni metaforiche del mondo come un tessuto, dell’importanza dell’acqua e le questioni come la relazione tra corpo e territorio, riportandole nella sua forma di scrivere lo spagnolo. Poi, ovviamente non tutti compiono queste operazioni. Ma ci sono forme di usare lo spagnolo decolonizzandolo. D’altra parte,, usare la lingua propria vuol dire mantenere con maggiore integrità la propria concezione del mondo. Per esempio, pensiamo al fatto che in lingua Nasa-Yuwe, lingua parlata da poco meno di metà della popolazione, circa 100.000 persone su 240.000, le parole delle parti del corpo equivalgono alle parole delle parti dell’albero. La parola per dire “tendine” è la stessa che si usa per dire “ramo”, la parola per dire “radice” è la stessa che si usa per dire “piedi”, e così via. Quasi tutte le parti del corpo sono anche parti degli alberi. Questo traduce nella lingua una visione del mondo per cui l’uomo è territorio. Non c’è distinzione netta tra persona e natura, come invece lo è per altre culture.
Ovviamente è difficile riprodurre questa visione in lingua spagnola, perché “mano” si dice in un modo e la “foglia” in un altro modo. Sono sfumature che sembrano sottili, ma che in realtà nascondono una concezione del mondo, una forma di nominare il mondo a partire dalla propria visione, che inevitabilmente si perde quando si perde la lingua. Quindi, sicuramente è molto importante mantenere la lingua, però allo stesso tempo non considero una perdita l’uso dello spagnolo. Non lo considero problematico dal punto di vista della perdita culturale, a meno che non manchi questo sforzo, che però c’è, di adattare lo spagnolo alla propria prospettiva.
Perché è importante mantenere l’identità culturale? È una domanda che ha tante risposte possibili. In generale, lo strappo della colonizzazione è ancora estremamente vivo in America Latina. La necessità di ricucire questo strappo, di ricucire trecento anni di etnocidio, di violenze, di conquista, inevitabilmente passa dalla ricostruzione e ricostituzione culturale dei popoli, che sono stati annientati innanzitutto culturalmente: sia perché gli è stata imposta a livello spirituale un’altra religione, sia perché gli è stato proibito di parlare la propria lingua e di identificarsi e nominarsi con dignità in quanto indigeni.. C’è stato un lungo processo in America Latina, soprattutto all’inizio del ‘900, chiamato campesinización del indio (che significa “contadinizzazione dell’indigeno”) per dissolvere tutte le identità culturali, facendo passare tutte le zone rurali come zone di contadini, senza distinzioni a livello culturale.
È necessario detenere questo processo, e la grande capacità della comunità indigene in Colombia, in particolare a partire dagli anni ‘70 con le prime grandi organizzazioni come il CRIC, è stata quella ritrovare, a partire dalle poche tracce dell’identità persa, una nuova identità culturale aggiornata, riconfigurata rispetto ai problemi contemporanei. Mantenere l’identità culturale non significa vivere come nel 1300, come prima della conquista degli spagnoli, questo non è più possibile (a parte in alcune aree non accessibili dell’Amazzonia.). Significa riuscire a proporre un modello di mondo diverso da quello che vede le popolazioni indigene come prime vittime dei conflitti statali e parastatali, perché le popolazioni indigene non sono narcotrafficanti, non fanno parte e non hanno fondato gruppi armati –anche se alcuni di loro li integrano perché sono reclutati. Eppure, nell’apparato statale in cui si ritrovano (n.d.r la Colombia), i Nasa soffrono per le problematiche causate dal conflitto armato e da tutta una serie di questione economiche che vengono da fuori. Mantenere l’identità culturale significa mantenere la capacità di proporre un sistema di convivenza, in questo caso nelle Ande, diverso da quello che si cerca di imporre loro.
Lei parla di Linguistic Landscape, portando numerosi esempi di luoghi contrassegnati dall’utilizzo della parola come strumento per rivendicare il territorio. Ha trovato ostacoli durante la collaborazione con la popolazione locale? Sono stati loro a condurla presso luoghi significativi (come il cimitero di Toribìo e la pietra memoriale)? È stato difficile accedere a tali luoghi?
Questa è un’altra domanda interessante perché, a una prima impressione, andare in una zona di conflitto armato può risultare pericoloso e spregiudicato. Tuttavia, non si può negare che verso la popolazione straniera, che viene da determinate aree, ci sia un trattamento migliore. Quindi, per una serie di fattori, una persona statunitense o europea può sentirsi più sicura. Per entrare in una comunità indigena, però, io ho sempre sconsigliato alle altre persone che iniziano a farlo, di viaggiare nel territorio senza conoscere nessuno.. Bisogna costruire lentamente dei ponti di fiducia con le persone, anche perché tante comunità indigene sono legittimamente diffidenti verso le persone straniere. Nel mio caso, prima ho conosciuto degli esponenti nella città, ho raccontato il mio progetto, le mie iniziative ho viaggiato con loro nella comunità, e a quel punto le autorità della comunità Nasa ti chiedono davanti a tutta la comunità di presentarti e di spiegare perché sei lì. Sta a loro giudicare se sei ben intenzionato o se stai richiedendo qualcosa che risulta una sottrazione del sapere che a loro non restituisce niente. In quel caso non hanno piacere a parlare con te. Bisogna costruire una relazione di fiducia. Non si può considerare la popolazione indigena come un oggetto di studio che tu guardi da fuori e che ti serve solo per scrivere un libro. Bisogna costruire delle relazioni umane in cui tu provi a portare qualcosa che può essere utile, a partire dalla divulgazione o dalla denuncia, ad esempio, moltiplicare le voci di denuncia verso una determinata situazione utile per quella comunità.
Dunque, in generale, l’esperienza dell’ingresso nella comunità deve essere molto umile, non si va a insegnare, ma si va a imparare, e questo bisogna chiarirlo anche con la comunità. Perché sono così abituate a sentirsi sfruttate nel sapere che non si rendono conto di aver tanto da insegnare fuori dalla comunità stessa. La concezione del palabrandar può essere utile per interpretare anche mondi culturali al di fuori del popolo Nasa. Loro però non sentono questa dignità del loro sapere, perché sono abituati a sentirlo come subalterno a quello occidentale. Io ho costruito un rapporto di fiducia in questo senso. Adesso sto lavorando in una nuova comunità, la comunità Embera (Panama e Colombia), dove il processo è completamente distinto. Ad esempio, alcune comunità ti fanno entrare solo se tu prometti di loro di dare una borsa di studio a uno studente indigeno nella università in cui lavori: io non ne ho la possibilità ovviamente, ma ciò che ti chiedono in cambio è un’esigenza pratica, poiché vivono in una condizione di esclusione tale da non avere alcuna intenzione di condividere il loro sapere con te solo perché sei interessato a scriverci un libro sopra. Bisogna, quindi, operare per avere un rapporto equo e orizzontale, mai verticale in cui tu sei il soggetto e loro l’oggetto. È molto problematica questa visione, soprattutto perché se una persona si occupa di studiare le culture indigene non può poi voltarsi dall’altra parte quando loro hanno delle esigenze pratiche. Questa è la prospettiva da adottare a mio parere.
Lei ha scelto di raccontare di questi suoi studi tramite un metodo che personalmente ho trovato molto efficace, ossia quello del data storytelling, quello sul sito che ci ha mandato. Come mai ha scelto questa modalità per parlare dei suoi studi? Consiglierebbe questa o altre modalità di digital storytelling ai colleghi umanisti?
Innanzitutto, ho sempre ritenuto estremamente necessaria l’operazione di divulgazione della ricerca e questa deve passare da nuove modalità, soprattutto in quest’epoca: quante persone leggerebbero un paper accademico su questa comunità indigena, nonostante la storia che c’è dietro sia estremamente interessante? Cento, duecento? Un lavoro più accattivante e accessibile a chi è abituato ad altri linguaggi può essere funzionale alla divulgazione, soprattutto se c’è poi un interesse sociale dietro. Nel caso specifico, ho la fortuna di conoscere una persona, Tommaso Guadagni, che si occupa di data visualization, con la sua azienda [che si chiama Dalk], con la quale volevo collaborare da tempo. Avendo così tante informazioni e sentendo la necessità di comunicarle anche attraverso altri strumenti, ho fatto un breve corso su come si usa una macchina fotografica, ho realizzato le fotografie e ho fornito poi a loro tutta una serie di dati. Loro hanno provveduto a disporre tutto secondo una logica chiara e graficamente efficace.
Dato che la ricerca universitaria parla solo agli altri ricercatori e non parla mai all’esterno, sebbene la terza missione dovrebbe essere un principio fondamentale, ho ritenuto che fosse necessario divulgare almeno la parte di contesto sociale.Per questo, ho iniziato un’attività non continuativa come giornalista, ma sempre a partire da spunti della mia ricerca, e questo è stato il prodotto più importante, attraverso l’incontro di testimonianze, analisi, foto, audio, video e data visualization, dell’incrocio tra linguaggi, è stata un’esperienza nuova e stimolante.
Progetta di approfondire ulteriormente le dinamiche della resistenza verbale dei Nasa o ritiene vi siano altri scenari da analizzare?
Per quanto riguarda il Linguistic Landscape, quindi il paesaggio linguistico, la scrittura nello spazio pubblico, mi sembrava che quello dei Nasa fosse particolarmente vivo e interessante da analizzare, proprio per questa grande quantità di parole che rispecchiano una concezione di vedere la parola nel territorio: il palabrandar. Negli ultimi quattro anni mi sono dedicato a questo, e penso che sia giusto studiare e interessarsi ad altre questioni ed è quello che sto facendo: non più attraverso il Linguistic Landscape, quindi l’espressione della parola nel territorio come forma di resistenza culturale o di letteratura. Mi sto interessando alla produzione del sapere di altre comunità, in particolare come i miti e le conoscenze delle comunità che vengono desplazadas, ossia scacciate dai loro territori dai gruppi armati e si trovano a vivere in città, riescono a essere mantenuti nello spazio urbano, che prevede altre esigenze. Quindi, come si mantiene il sapere, la cultura orale in spazi urbani marginali nelle periferie delle grandi città colombiane: questo è un po’ l’interesse che sto costruendo in questi mesi.
Materiale bibliografico di riferimento:
- Ferrari, Simone. Armed conflict and resistance in indigenous Colombia – The linguistic landscape of Toribío (Cauca). Università degli Studi di Milano, John Benjamins publishing company, 2021. pp. 159-182 nel volume Patricia, Gubitosi & Michelle F. Ramos Pellicia. Linguistic Landscape in the Spanish-speaking World, University of Massachusetts Amherst/California State University San Marcos
- Ferrari, Simone. “Gli Indigeni che combattono i Narcos in Colombia”, https://stories.visualeyed.com/colombia/
Come citare questo post:
Ferraro Marco, Notarstefano Lucrezia e Castiglione Mariana Lucia. “La resistenza Nasa – Intervista a Simone Ferrari”. Geolitterae, aprile 2022. https://geolitterae.unimi.it/2022/04/13/la-resistenza-nasa-intervista-a-simone-ferrari/