Intervista a Lidia Manzo
In questo nuovo dialogo senza confini abbiamo avuto il piacere di intervistare la Dott.ssa Lidia Manzo, sociologa e ricercatrice presso l’Università Mercatorum di Roma. L’intervista si concentra sulla Chinatown di Milano e sui processi urbani e sociali che hanno contribuito alla sua trasformazione.
Per cominciare, vorrei chiederle gentilmente di presentarsi e di raccontarci qualcosa riguardo alla sua formazione e al suo lavoro.
Mi chiamo Lidia Manzo e ho conseguito un dottorato in Sociologia e Ricerca Sociale a Trento nel 2014. La mia formazione inizia però all’Università degli Studi di Milano, con una triennale in Comunicazione Interculturale e una magistrale in Comunicazione Politica e Sociale. Possiamo dire che il mio background unisce competenze comuni a diversi corsi di laurea in Scienze Politiche, dove c’è sociologia ma anche economia e diritto, comunicazione e marketing. A quel tempo, mentre studiavo all’università, lavoravo come giornalista al Comune di Milano a Palazzo Marino con l’allora sindaca Moratti, quindi stiamo parlando degli anni tra il 2005 e il 2008. Ero interessata alla professione di giornalista o di comunicatore e da lì ho scelto questi percorsi accademici. Come spesso succede, si inizia un percorso e ci si appassiona ad alcune questioni, io per esempio mi sono appassionata in particolare alla ricerca urbana.
Ricordo che quando feci il colloquio per entrare alla scuola di dottorato di Trento mi chiesero quale fosse la differenza tra l’essere giornalista e l’essere sociologa. Fondamentalmente credo che la grande differenza, al di là dell’etica mi auguro, sia che, quando si è uno scienziato sociale piuttosto che di scienze dure, si debba cercare al di là dell’approccio metodologico di teorizzare, quindi di contribuire a teorie, in questo caso teorie sociali. Provengo da un background in comunicazione, sicuramente fa parte di me e questo traspare nella mia produzione scientifica, però poi ho avuto l’opportunità durante il dottorato di fare ricerca a Brooklyn (New York) che ha affinato le mie capacità ma anche la mia mente. Ho potuto studiare con docenti di fama mondiale per quanto riguarda la ricerca urbana sulla gentrificazione e ho iniziato ad unire questi tasselli. Dopo il dottorato ho vinto una borsa di ricerca in Irlanda, concentrando i miei studi nell’area di Dublino, dove mi sono focalizzata di più sulle comunità vulnerabili, quindi case popolari e social housing. Su questo tema ho vinto una borsa Marie Curie della Commissione Europea e poi sono tornata di nuovo all’Università degli Studi di Milano dove ho appena concluso un percorso di tre anni come ricercatrice a tempo derminato. Maggio è stato un importante turning point dato che ho vinto un Tenure Track Research, che sostanzialmente è il profilo di ricercatore tra professore associato e assegnista. Dal primo giugno ho iniziato il mio percorso in un nuovo ateneo, l’Università Mercatorum di Roma.
In questa intervista, ci concentreremo su Chinatown, uno dei quartieri più emblematici della città di Milano. A questo proposito vorrei chiederle, come mai ha scelto di utilizzare il mezzo audiovisivo per le ricerche su Chinatown? Quali ritiene siano i punti di forza e il potenziale narrativo di questo strumento rispetto ad altri metodi di indagine e di disseminazione?
A proposito di questo voglio sfatare un mito che è quello della strategia metodologica. Questo fa parte proprio della ricerca induttiva, cioè si ha un oggetto della ricerca e delle teorie di riferimento, quindi si usano metodi qualitativi, deduttivi. Ci si aspetta di capire sul campo proprio i processi che si vogliono studiare. Poi i metodi, le domande e le sotto domande cambiano a seconda di quello che scopriamo, e questa è proprio la genuina ricerca qualitativa, che fa parte della tecnica chiamata Grounded Theory. Fatta questa premessa, io ho iniziato nel modo canonico, costruendo dei contatti, facendomi accompagnare e spiegare certe dinamiche sul campo. Poi ho mappato le associazioni e quelli che vengono chiamati gatekeeper, cioè i personaggi più importanti, non per forza istituzionali, ma quelli che possono farti scoprire tante cose.
Quando ho iniziato a fare ricerca, nel 2007, era esplosa la protesta di strada da parte dei cinesi nelle vie Bramante e Paolo Sarpi, un evento straordinario perché non è questo il tipo di comunità che scende in strada a fare protesta. Dal punto di vista della rappresentazione mediatica io constatavo questa grandissima separazione tra quello che venivo a capire e come veniva raccontata Chinatown, ovvero come un luogo sporco e della perdizione. Il crimine appartiene a tutta la città e a tutto il mondo quindi ci sarà anche lì, ma non era quella la proporzione. Poi vi era anche la questione degli imprenditori cinesi che operano illegalmente: questo specifico quartiere era in pratica diventato un enorme calderone in cui far riversare lo stereotipo e il pregiudizio etnico. Io venivo a scoprire cose completamente diverse, una comunità tradizionalmente molto coesa, molto affezionata a questo spazio, al tempo chiamato quartiere Canonica/Sarpi, che non era ancora la Chinatown che appare oggi sulla label di Google Maps.

Quindi io ho pensato cosa cosa potessi fare con la mia ricerca, dato che nella città era scoppiato questo caso e non si faceva altro che parlare di Chinatown e dei cinesi. Ho pensato che avrei prodotto la mia tesi per laurearmi, ma che forse sarebbe stata letta da 5 o 6 persone. Mi sono detta che avrei potuto fare qualcosa che avesse più impatto sociale, perché da una parte, eticamente parlando, chi ha la competenza di raccontare dei fatti in un modo più veritiero deve riuscire a trovare degli strumenti che diano voce ai partecipanti, in questo caso alla ricerca, oppure agli intervistati nel caso dei giornalisti. In secondo luogo, è importante la ricerca sociale più pubblica che si occupa di Social Justice, e che quindi interseca i risultati scientifici della ricerca con prodotti che si possano comunicare anche al grande pubblico. Perciò se un articolo scientifico viene letto da 50 persone se scritto molto bene, un documentario, un libro di un genere più pubblico o delle interviste possono arrivare al grande pubblico e a coloro che non possono accedere ad una tesi di laurea.
Durante le fasi della ricerca, ho iniziato ad interrogarmi su come fare, mi sono procurata una telecamera, ho collaborato con delle giovani videomaker e poi ho curato l’editing, cioè la regia per costruire il documentario, insieme ad una persona che svolgeva quel lavoro. In quel momento ero mossa dalla questione di dover dare voce ad un’altra storia, perché quella raccontata dai media non era corretta. Poi ho capito che poteva essere una strategia per rendere la ricerca pubblica, dato che a volte si è mossi da qualcosa che si pensa di fare bene e che in questo caso possa dare voce, partecipazione ed empowerment ai partecipanti della ricerca. Quindi in quel momento ho pensato a questa dinamica, poi ho riflettuto su ciò che avevo fatto e ne ho anche scritto.
Per iniziare a comprendere meglio questa sorta di ecosistema, le chiederei di spiegarci quali sono le origini di Chinatown, quando, come e perché hanno iniziato ad arrivare i primi migranti cinesi?
Chinatown è un quartiere della vecchia Milano, quindi ai margini del centro storico, ma comunque molto vicino ad esso, tant’è che una delle porte dei bastioni, Piazzale Baiamonti, si trova alla fine di via Paolo Sarpi. Il quartiere si estende poi nei pressi dell’arena e di parco Sempione, però per la sua conformazione nei piani urbanistici, ha sempre avuto della residenza privata, non ci sono case popolari. Tuttavia, per la sua morfologia e per la scarsa qualità delle case, ha comunque sempre ospitato delle classi popolari. Nei primi del Novecento era un quartiere in cui andavano ad abitare i primi migranti dalle campagne lombarde per lavorare. Il quartiere è rimasto abbastanza inalterato anche per la sua conformazione, una sorta di rombo attraversato da due assi principali, sul lungo da Paolo Sarpi e sulla parte più corta da via Bramante, dove passa anche il tram. Da sempre ha una morfologia quasi a villaggio, con una predisposizione ad avere tutta una parte commerciale sul piano terra in Paolo Sarpi, che diventa anche lo spazio pubblico del quartiere. In tutte le altre piccole vie si trovano una serie di laboratori e questo è un dato importante perché ovviamente quando dei migranti cercano degli spazi per innestarsi con i loro commerci hanno bisogno anche di trovarli questi spazi e non possono costruirli da zero.
Quest’area poteva prevedere una doppia faccia, una per i laboratori, un po’ più nascosta dove si possono gestire dei magazzini e degli stock di prodotti, ed una parte più “pubblica” che è quella dove ci sono le vetrine dei negozi al piano terra. Questo era il patrimonio dell’allora quartiere Canonica/Sarpi, all’interno di un’evoluzione economica comune a tutta l’Italia, in cui sostanzialmente tra gli anni ’80 e gli anni ’90 iniziano a decadere da un punto di vista economico e commerciale tutte quelle piccole attività che venivano mantenute a livello familiare, quindi dalla merceria, alla sartoria, al vetraio ecc. Tutti quei piccoli negozi venivano fagocitati dall’innesto nelle grandi città del commercio, dei centri commerciali e dei grandi negozi, che potevano offrire le stesse merci ad un prezzo sicuramente più vantaggioso. In più non si è verificata per moltissime di queste attività, la successione nella famiglia perché i figli hanno potuto studiare, hanno avuto più benessere e non volevano più portare avanti questi negozi. Quando i genitori magari andavano in pensione queste attività venivano cedute, vendute oppure fallivano.

Nella storia di Paolo Sarpi tante volte ritornerà la questione del commercio, delle leggi regionali come quelle di Regione Lombardia, che ne determinano l’andamento perché hanno facoltà di regolamentarlo, o delle norme più urbanistiche sulla città di cui si occupa il Comune di Milano. In questo caso a livello nazionale e regionale vengono liberalizzate le licenze commerciali. Questo significa che se prima di allora non si potevano aprire cinque bar uno di fianco all’altro, perché si cercava di pianificare in modo tale che ci fosse un insieme di attività commerciali diverse, questa norma viene a decadere e ci si ritrova in un momento storico in cui si liberano degli spazi commerciali e si possono acquistare le licenze.
A seguito della seconda guerra mondiale il flusso migratorio verso l’Italia si è ridotto notevolmente, fino ad arrivare agli anni ’80, con la politica di Deng Xiaoping e la riapertura della Cina ai contatti con l’estero. Il flusso si fa più intenso e, in particolare, il fenomeno delle catene migratorie. Può spiegarci come funzionavano e che tipo di attività svolgevano i migranti cinesi?
Negli anni Novanta iniziano ad arrivare famiglie cinesi dalla provincia di Zhejiang in Cina, oltre a quelli che erano arrivati prima in modo rocambolesco per la guerra. Ci sono dei periodi in Cina in cui si aprono e si chiudono le frontiere e negli anni ’80 e ’90 con il presidente Deng Xiaoping si aprono. Quindi arriva questa ondata dallo Zhejiang, una zona molto attiva da un punto di vista commerciale e queste famiglie cinesi, anche in modo pionieristico, iniziano ad acquistare in contanti gli spazi rimasti liberi nel quartiere per piazzarci le loro attività di commercio all’ingrosso. Innanzitutto, le reti etniche si muovono su contanti, semplicemente perché si prestano i soldi tra di loro, tra le famiglie, come facevano una volta gli italiani.
Ai tempi i mercati finanziari e dei mutui non erano ancora tanto sviluppati, ma sicuramente le banche non andavano a concedere finanziamenti a persone che non avevano neanche un lavoro sicuro, dato che si muovevano lavorando per l’azienda di uno o l’azienda dell’altro. Erano anche gli anni ’80 e ’90, quindi era tutto un po’ da costruire, leggi fiscali comprese. Oltre all’ingrosso, sicuramente c’erano anche dei ristoranti cinesi, ma erano davvero una piccola parte. Il commercio all’ingrosso era preferito perché i cinesi avevano trovato – e questo sta nella dinamicità economica e commerciale delle famiglie dello Zhejiang – l’occasione di acquistare merci di basso profilo, come giocattoli, gioielli e vestiti, dalla madrepatria e farli arrivare all’ingrosso in Italia, per poter servire in buona parte i mercati, cioè le attività degli italiani.
All’epoca ricordiamo che non erano gli extracomunitari a fare i mercati, ma gli italiani, quindi si potrebbe parlare di chincaglieria cinese che andava a finire sui banchi dei mercati oppure in altri negozi al dettaglio. Questi ultimi hanno iniziato a sostituire le proprie merci con quelle cinesi e a farle pagare veramente “a peso d’oro”, perciò non sono stati i cinesi a sfruttare gli italiani, ma il contrario. Arrivando attorno agli anni 2000 il quartiere inizia a polarizzarsi, il che dipende molto dalla proprietà dei negozi. La prima parte, verso l’attuale Fondazione Feltrinelli, era quasi tutta cinese con negozi all’ingrosso di abbigliamento, gioielli ed elettronica. Poi una seconda parte manteneva i negozi di stampo italiano.
Lo sviluppo della comunità cinese a Milano ha avuto delle ripercussioni sul tessuto sociale, economico e urbano. In che modo questo quartiere è cresciuto, anche a livello territoriale, e come sono state accolte la presenza e le attività cinesi dalla città e dai suoi abitanti?
Le attività dei cinesi nel quartiere ad un certo punto hanno iniziato ad infastidire una certa parte di residenti italiani. Tra l’altro una delle varie cose che ho scoperto, è che quella di Milano non è una vera Chinatown, perché solo il 5% dei residenti sono non italiani. Infatti, la presenza cinese è concentrata soprattutto nel commercio e in varie associazioni e istituzioni: i bambini vanno nella scuola del quartiere perché ha dei programmi specifici, anche la Chiesa cattolica ha un programma cinese cattolico, perciò si tratta dell’anti-stereotipo per eccellenza. Però, quando si parla di residenti si intendono quelli italiani, anche della vecchia Milano, che dagli anni 2000 hanno iniziato a diventare sempre più i proprietari.
A Milano, forse il 70-75% dei residenti è anche proprietario di casa, quindi Paolo Sarpi rispecchia questo andamento. Una piccola parte del problema era perciò costituito dai residenti che iniziavano a lamentarsi per l’impatto dell’ingrosso nel loro quartiere, con meccanismi come il carico e lo scarico della merce non governato da regole, o fatti banali come il non riuscire a trovare parcheggio. Inoltre, vi era traffico a tutte le ore e gli scatoloni che contenevano la merce venivano abbandonati in strada. Un oggetto del contendere specifico, poi, è stato costituito dal carrellino, che veniva utilizzato per portare gli scatoloni. Diciamo che la parte di classe più alta si lamentava, il che è molto sociologico, perché sostanzialmente avevano sempre paura di vedere svalutati i propri investimenti, il proprio quartiere e la propria abitazione.
Quindi vedono che i cinesi non sanno neanche allestire una vetrina, perché chiaramente essendo un ingrosso si esponevano al massimo gli scatoloni e forse un paio di oggetti attaccati al vetro. Certe vetrine suscitavano un sorriso, anche perché poi subentravano i canoni culturali estetici italiani. Mi ricordo che c’era questo ingrosso di scarpe che teneva in vetrina diversi piedi di plastica, uno sopra l’altro e tutti tagliati alla caviglia, che inforcavano vari modelli di scarpe. Questo tipo di allestimento è ancora uno dei maggiori punti del contendere.
Tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 si può parlare di un primo processo di gentrification dato che coesistono in questo quartiere classi operaie e classi medie. In che modo si può applicare questo concetto al quartiere di Chinatown e come si evolve nel tempo?
Innanzitutto, è importante ricordare che la protesta dei commercianti cinesi scatta nel 2007 e che il grosso attore, nel senso di potere esercitato sullo spazio pubblico e che ha un grandissimo ruolo nell’avviare il processo di gentrificazione, è il Comune di Milano, quindi la politica locale. Il processo iniziale viene chiamato embryonic gentification, cioè “gentrificazione embrionale”, un concetto che non ho proprio chiarito, però sostanzialmente quando ho parlato del quartiere come villaggio, del fatto che non ci fosse un gestore pubblico e di opportunità anche economiche, parlavo delle caratteristiche che può avere questo processo. Poi alla fine si stanno gentrificando anche i quartieri popolari con modalità diverse, ma in questo caso specifico ci sono peculiarità che fanno parlare di embryonic gentrification. Per arrivare alla gentrificazione vera e propria devono accadere altre dinamiche.
Facciamo un passo indietro, quando lavoravo al Comune di Milano ho fatto parte del censimento del 2001 e mi avevano assegnato la zona di Paolo Sarpi, quando non ero ancora una studentessa all’università. Ho attraversato il quartiere casa per casa chiedendo a tutte le famiglie di compilare il modulo. Era ancora cartaceo, un “censimento 1.0”, e andavano registrate anche le aziende e i negozi. Il problema è, che al di là degli anziani, i cinesi non erano in grado di compilare i moduli perché non conoscevano bene la lingua. Le domande erano poste in un italiano più complesso, e già allora, essendo entrata in tante case e attività commerciali, vedevo che per esempio nel negozio solo i bambini delle elementari potevano compilare il questionario del censimento.
Passiamo al 2007 quando frequentavo la triennale e stavo cercando un caso per la tesi di laurea. Lavoravo all’ufficio stampa del Comune di Milano e stavo pensando proprio a un caso di sociologia urbana, però non avevo ancora scelto: quando si è giornalisti è normale, o si scrive o si sta davanti allo schermo a una certa ora del giorno, perché le notizie poi devono essere passate per la sera. Quindi vediamo l’ANSA, questa agenzia di stampa che manda sempre poche righe di notizie che poi si costruiscono, e io inizio a leggere riguardo i disordini in Paolo Sarpi, con 200 cinesi che si riversano sulle strade. Mi sono informata e ho deciso che quello sarebbe stato il caso per la mia tesi, perché era davvero una cosa eccezionale, dato che non si trattava della periferia ma di pieno centro.

A partire dagli anni ’90 i grossisti cinesi iniziano i primi investimenti nella zona circostante a Via Paolo Sarpi, che si può definire il cuore pulsante del quartiere. Quest’area diventa quindi sempre più trafficata e vivace, nelle vie principali troviamo negozi di abbigliamento, ristoranti e minimarket mentre nelle vie secondarie i negozi di vendita all’ingrosso. In che modo questi ultimi vengono integrati, cosa cambia nel flusso di persone che abitano o lavorano nel quartiere e come reagisce l’amministrazione comunale?
Quando si svolge una ricerca sociale, si deve cercare di essere critici, quindi oltre a raccontare i fatti, bisogna anche andare a capire come e perché si è arrivati a quella situazione. Si fa anche una sorta di analisi, che si chiama power structure, cioè si cerca di scoprire chi ha avuto il potere di agire in un processo, che in questo caso si è prolungato per un ventennio circa. I malumori dei residenti non sono sufficienti per far accadere un conflitto urbano, i reali motivi che hanno fatto insorgere la comunità cinese di Paolo Sarpi sono state le azioni indirette del Comune di Milano, portate avanti dalla polizia locale e da alcuni politici di estrema destra che erano nella giunta della sindaca Moratti. L’obbiettivo era quello di scoraggiare i commercianti cinesi, cioè cercare di mandarli via, ma non si può scendere nel quartiere con la polizia e cacciarli dai negozi che loro hanno acquistato con tanto impegno e fatica.
Perciò, hanno provato a infastidirli al punto tale da farli andare via spontaneamente. Hanno iniziato ad introdurre delle regole molto severe per il carico e lo scarico, che colpirono moltissimo i negozi all’ingrosso dato che si trattava di un commercio che muoveva costantemente merci e persone, quindi loading e unloading di prodotti, scatoloni ecc. Poi hanno aumentato il controllo della polizia, che multava pesantemente le infrazioni agli orari di circolazione ma anche l’abbandono di scatoloni e rifiuti in mezzo alla strada. Hanno iniziato a vietare l’uso dei carrellini perché non erano decorosi, davano fastidio e si trovavano sulla via. Gli stessi commercianti cinesi che io intervistavo, mi dicevano che questo traffico di merci magari era dovuto al panettiere o al lattaio italiano, ma loro non venivano multati al contrario dei cinesi.
Dato che l’amministrazione stava rendendo la vita dei cinesi impossibile, ad un certo punto sono insorti, in modo anche molto simbolico, per cui hanno attaccato la bandiera della Repubblica popolare cinese al semaforo e in 200 o 300 persone hanno bloccato via Bramante, impedendo ai tram di circolare. Da quel momento in poi, il comune ha cercato di tenere una linea dura, quella della tolleranza zero continuando a disincentivare questo tipo di commercio all’ingrosso. La cosa interessante è che questi provvedimenti venivano motivati come un favore concesso ai residenti, perché questi ultimi non riuscivano più ad avere una vivibilità. È interessante perché io ero giovane, facevo un po’ quella sprovveduta, facevo domande e i politici mi raccontavano tutto come se io fossi Mary Poppins. Mi dicevano veramente quello che pensavano, cose che magari ad un giornalista del Corriere della Sera non avrebbero raccontato.
Bisogna quindi sottolineare le vere intenzioni del Comune di Milano, che si sono rivelate negli investimenti strategici che ha effettuato in quell’area e nel suo intorno, come la metropolitana, la Fondazione Feltrinelli, il Museo del Design e poi tutta una serie di opere urbanistiche, non ultima la pedonalizzazione. E le modifiche apportate a tutta la via, come la chiusura del traffico veicolare, la nuova pavimentazione, le aree verdi, tutta una serie di festival, occasioni ecc. Il comune era strategicamente molto interessato all’area perché in una città si cerca di trovare occasioni di speculazione, spesso al posto di pensare al bene pubblico. Quindi una zona che era tra corso Sempione e corso Como, più tutta la parte storica e centrale, aveva sicuramente del potenziale, ed era già comunque colonizzata da certi investimenti di impatto e di classe alta, non ultime le residenze. Si è cercato di piazzare questi investimenti laddove risultavano dei buchi architettonici.
A quel punto, fare questi investimenti, la metropolitana per esempio, alza tantissimo i valori immobiliari di un’area, quindi stiamo parlando di geografia finanziaria. Certo è che se su quell’area ci sono gli extracomunitari, l’ingrosso e i carrellini non va bene perché il comune alza il valore ma poi questo si svaluta, e quindi hanno cercato di allontanarli. In prima battuta però, l’imprenditore cinese fa sentire la sua voce, richiamando un po’ all’ordine il governo locale ed evidenziando il fatto che esistono anche loro e non sono affatto deboli.
Chinatown diventa nel corso degli anni sempre più trafficata e popolata, a questo proposito vorrei chiederle, quali percezioni o narrazioni si sono create nella città di Milano nei confronti del quartiere di Via Paolo Sarpi? In che modo queste influenzano le dinamiche di integrazione tra le due comunità e rispecchiano l’esperienza dei suoi abitanti? Come si sono evolute queste percezioni negli anni e perché?
La pedonalizzazione e i grandi investimenti nel quartiere hanno penalizzato più di tutti i vecchi commercianti italiani perché erano comunque persone che avevano già una certa età e ad un certo punto decidono di chiudere. La pedonalizzazione, durata due o tre anni, ha aggravato la loro situazione, perché avere le macerie e gli scavi davanti ai negozi non aiuta il commercio, quindi molti italiani hanno chiuso per fallimento, per prossimità alla pensione, oppure hanno venduto, come per esempio la macelleria di via Paolo Sarpi che è diventata la Ravioleria Sarpi, uno dei posti più famosi del quartiere. Specifico questo per sfatare una serie di miti di conflitto che non esistono e per dire che gli imprenditori più dinamici che hanno saputo cavalcare la trasformazione del quartiere a loro vantaggio economico sono stati nella maggior parte proprio quelli cinesi.
Al tempo, l’ingrosso era comunque un unicum e sarebbe dovuto finire perché ad un certo punto non avrebbe più funzionato in quel contesto. Chi ha deciso di continuare quell’ingrosso si è delocalizzato, quindi ha venduto ed è andato altrove. Alcuni hanno mantenuto lo spazio e si sono reinventati come food and drink o altri generi di negozi al dettaglio. Quando dico food intendo rivisitare il ristorante etnico cinese in una sorta di fusion, oppure creare la specializzazione come la ravioleria o la pasticceria, come per esempio Chateau Dufan, un ristorante che si è ingrandito tantissimo. Questo dimostra proprio l’estrema dinamicità dell’imprenditore etnico in generale e cinese in particolare, ma anche la capacità di poter acquisire capitali nella banca della famiglia e di far ricircolare l’opportunità economica, cose che le imprese italiane al dettaglio non hanno.
Con il passare degli anni e l’evoluzione di quest’area, le prime generazioni di migranti cinesi sono state a mano a mano sostituite da quelle nuove con discendenti nati e cresciuti in Italia. Come viene percepito questo ricambio generazionale dalla comunità cinese e non? Questi discendenti seguono le orme dei genitori e dei nonni portando avanti attività già esistenti o intraprendono percorsi diversi?
Ad oggi, i media non sono più soltanto le rappresentazioni degli occidentali sulle seconde generazioni, ma tantissimi influencer cinesi, chiamiamoli così, anche molto giovani, sono davvero presenti e vendono un prodotto che è la “cinesità“. La chineseness è appunto una versione 3.0, cioè quella mediatica, in stile milanese di design e di cibo, post Expo 2015. Queste dinamiche sottolineano l’estrema ibridazione delle seconde generazioni che giustamente si giocano i loro jolly, perché Chinatown adesso è diventato un brand che ha subito un processo di commodification, o mercificazione. Chinatown è diventata una merce, un valore, un esperienza che si vende, e loro, gli “Italian born Chinese”, fanno fruttare la parte culturale perché sono “autentici” con gli occhi a mandorla, e rappresentano questa “cinesità”, quando probabilmente per la conoscenza che ho del quartiere Sarpi, potrei essere più cinese io di loro, che magari non ci vivono nemmeno ma creano discorsi e narrazioni. La “vendita” di Chinatown funziona comunque molto bene negli ultimi anni dato che è sempre più frequentata, forse troppo.

Per fare un confronto, è un po’ come per la mia generazione andare sui Navigli, soprattutto durante la bella stagione. Il passaggio di persone a tutte le ore che bevono, cantano e se la godono, in realtà fa un po’ sorridere perché se i residenti avessero saputo che si andava a finire 15 anni dopo con questo tipo di attività notturna non l’avrebbero mai voluta, avrebbero accettato i negozi all’ingrosso molto più piacevolmente, dato che almeno di notte erano chiusi. Io sono ancora in contatto con tantissime associazioni del quartiere che mi raccontano cosa succede, le loro battaglie adesso, che sono quelle dell’Amsa. Queste problematiche non emergono più a causa degli scatoloni perché l’evoluzione si è verificata oltre che per la gentrification, anche per la geografia dei rifiuti. Prima c’erano i rifiuti dell’ingrosso, adesso ci sono i rifiuti del food and drink della movida, una marea di bicchieri di plastica, di cibo abbandonato, cestini che non sono sufficienti e rifiuti organici abbandonati. I residenti che escono la domenica mattina da casa si devono proprio fare spazio, per cui persino il servizio dei rifiuti non riesce a gestire questa domanda. Si ritrovano adesso a dover affrontare un altro impatto di questa gentrificazione commerciale, cioè il fatto che non ci sia stata una sostituzione tra i residenti, ma una sostituzione commerciale, quindi displacement e replacement, che in realtà genera scontento.
A proposito di questo dualismo, volevo farle una domanda a proposito del rapporto tra abitazioni e attività: i commercianti cinesi che hanno il proprio negozio in Chinatown abitano anche nel quartiere oppure no?
In realtà ci sono principalmente residenti italiani perché i prezzi sono molto alti. Primariamente, anche per le mie conoscenze, i cinesi si sposano anche ad un’età abbastanza diversa dai giovani italiani, perché magari a 25 anni si sono già sposati e fanno famiglia. Quando si sposano tra cinesi – dato che ci sono anche casi in cui si sposano con italiani e allora vengono quasi diseredati – le famiglie affidano una dote economica molto forte perché si aspettano che venga reinvestita nelle aziende, si tratta di un network di capitali familiari. Nella stragrande maggioranza dei casi i cinesi che si sposano non acquistano una casa nella quale abitare, ma investono il denaro e lo usano per le attività commerciali, per prestarseli tra le famiglie, per darli a un’altra coppia che si sposa ecc, perché in caso contrario lo immobilizzerebbero. Ci sono sempre questi capitali che si muovono.
Inoltre in una zona di Milano in cui il 70/75% degli immobili sono di proprietà, o lo si eredita da qualcuno oppure si deve optare per quel 20/25% che resta in affitto, ma in quell’area è estremamente caro, per cui loro affittano le case nelle zone in cui costa meno come viale Monza, Affori e tutta quella parte anche più a nord, ma abbastanza vicina a Sarpi. I cinesi hanno sempre prodotto le associazioni, le istituzioni locali, le scuole e la parrocchia del quartiere ma difficilmente abitano lì. Poi ci può essere il caso, ma secondo me si parla ancora di anni ’80/’90. Ci sono stati ricercatori come Daniele Cologna che è un sinologo, cioè un conoscitore della lingua e della cultura cinesi, che hanno svolto una ricerca nella quale si evidenzia come a quell’epoca magari si poteva trovare un appartamento in cui vivevano tantissimi cinesi, ma erano single e avevano bisogno di un letto in cui dormire perché lavoravano nei dintorni. Quelle realtà però, comprese le situazioni dove alcuni non hanno documenti, sono in genere superate o di sicuro non si trovano nel quartiere. Per questo motivo quando si parla di residenti ci si riferisce sempre un po’ al prototipo del pensionato italiano che bene o male vive nel benessere ed ha una casa di proprietà.
Oggi in un certo senso il quartiere di Chinatown non dorme mai e si ritrova sempre molto affollato. Gli scatoloni del commercio all’ingrosso sono stati sostituiti dai rifiuti che riempiono le strade. Si verificano ancora dei contrasti tra residenti e commercianti cinesi oppure riescono a convivere serenamente?
L’ultima volta che sono stata ad una riunione in realtà volevano proprio far intervenire il comune, però in questo momento non credo. Si lascia più spazio alla libera iniziativa di associazioni di residenti come Vivi Sarpi, che si organizza con altre associazioni per fare ad esempio la giornata di pulizia e per avere rapporti privilegiati con l’Amsa, strutturando più raccolte dei rifiuti in certi momenti o in certi giorni. C’è sicuramente un grande malumore per la questione, anche se resta un po’ ambigua dato che i residenti sono soddisfatti di vedere aumentato il valore del proprio investimento. Adesso abitare in Paolo Sarpi è ambito perché è un quartiere più cool e quindi le case hanno sicuramente aumentato il loro valore.
D’altro canto ci sono anche, come nel prototipo di “gentrificatori”, i giovani professionisti. Quando dico giovani intendo persone di almeno 45 o 50 anni, che magari hanno bisogno di parcheggiare perché hanno dei figli piccoli che devono andare a scuola. Ora su Paolo Sapi non si può più passare al contrario delle vie limitrofe, dove comunque non si trova posto. A questo punto subentra il solito discorso di lamentela di tutti quei quartieri che hanno fortuna nella vita notturna. Rimane questa ambiguità, dato che i residenti sostanzialmente vorrebbero attirare solo le cose di qualità come il Museo del Design, ma sono comunque preoccupati perché gli investimenti e i nuovi investitori arrivano senza che loro possano avere voce in capitolo. In generale aleggia questa ambiguità tra positivo, negativo e un po’ di ansia dei residenti per il futuro.
Non credo che ci sia terreno per altri conflitti, più che altro si cerca una buona convivenza. Ci sono comunque degli storici imprenditori italiani, per esempio Cantine Isola, un’enoteca che esiste da oltre 100 anni e funziona ancora molto bene. Li ho sentiti ad una riunione di Vivi Sarpi di recente e parlavano di come si stessero occupando di educare i cinesi, in un senso buono e non etnicamente, per far capire loro come smaltire i rifiuti correttamente, anche se poi c’è sempre qualcuno che non vuole ascoltare. Questa è un po’ la nostra gentrificazione all’italiana, per cui davvero si gioca molto sulle pratiche. I suoi assetti sono quelli culturali di classe, quindi il decoro, la bellezza e l’appropriatezza delle pratiche, che sono appunto i canoni dei “gentrificatori” delle classi medio-alte, che poi dopo si vanno a scontrare con le pratiche di chi arriva da fuori per fare esperienza nel loro quartiere. Quindi credo che il conflitto sia questo, sul terreno delle pratiche, o almeno fino a questo punto, dato che in futuro altri possibili e grossi investimenti potrebbero cambiare ancora il volto del quartiere.
Vorrei farle un’ultima domanda riguardo al presente e al futuro di Chinatown. Oggi il quartiere è sempre più popolare anche tra i giovani, sulla via principale, Paolo Sarpi, si trovano principalmente caffetterie, ristoranti street food, mini-market e negozi di oggettistica. Cosa pensa della Chinatown attuale, dei cambiamenti che ha subito, e quale futuro vede per questo quartiere?
In realtà io lo avevo un po’ predetto, quando ho scritto la tesi triennale e poi ho fatto l’etnografia e il documentario per la magistrale che ho discusso nel 2009, per cui stiamo parlando di 16 anni fa. Non era ancora stata pedonalizzata via Paolo Sarpi, non c’era ancora stato neanche il provvedimento, avevano chiuso il traffico solo ai residenti e comunque le macchine passavano. Però io avevo subito pensato che non fossero segnali positivi e per quello che avevo letto in altri libri ho capito che stesse iniziando un processo di gentrificazione di tipo commerciale. E così è stato. Si è verificata l’ipotesi, è quello che dice anche Sharon Zukin nel suo libro Naked City e in tanti suoi studi, parlando proprio di quel momento in cui uno spazio urbano, un quartiere, perde il suo soul, cioè la sua anima e quindi credo che si arrivi ad un punto di non ritorno. È un momento in cui si ha mercificato e fatto rebranding così tanto che quell’anima del quartiere popolare – che comprendeva anche quelle strade un po’ sporche ma autentiche per le popolazioni che le avevano create – ora non esiste più. Adesso è autentico per chi fa parte della mobilità, però non lo è più per chi l’aveva creato, che in pratica è stato anche mandato via. Nel breve io penso che accadrà questa cosa ed è come se il quartiere andasse a morire diventando un lunapark, che non è un quartiere ma un luogo di divertimento, e di certo un po’ lo è già anche adesso.
Per concludere, le chiedo gentilmente se può consigliarci delle letture o dei prodotti audio-visivi che trattino questi argomenti e possano approfondire il discorso sulla complessa ma affasciante realtà di Chinatown.
Sinceramente non saprei consigliarti degli altri prodotti audiovisivi. So che avevano realizzato anche dei documentari con degli attori cinesi e dei registi cinesi, ma non su Paolo Sarpi e credo che la possibilità di avere audiovisivi non sia una cosa così comune. Poi in realtà all’estero, cioè su casi fuori dall’Italia, non ne conosco di letture. Ho selezionato però due articoli di giornale che parlano principalmente di gentrificazione tramite il cibo:
Maniscalco, Anna. Le città sono diventate enormi ristoranti. Domani. 2 aprile 2024.
Se invece può interessare un libro a cui anche io mi ispiro tanto, è quello di una delle docenti con cui io ho studiato a New York. Si tratta di Naked City di Sharon Zukin, che è anche disponibile in versione italiana con il titolo L’altra New York dalla casa editrice Il Mulino, ma io consiglio, se possibile, di leggere l’originale non tradotto. Il libro parla di New York e di gentrificazione che passa dal cappuccino, come il quartiere di Harlem ma in generale tutti quei posti sul quale si hanno stereotipi sul fatto che siano poveri e abitati solo da afroamericani, quando in realtà adesso si tratta di posti hypercool e dove appunto si trova un cappuccino che costerà 10 dollari. Si ritrova tutta questa diatriba della trasformazione, della vendita della diversità del quartiere, quindi quello che noi abbiamo descritto all’inizio degli anni ’80/’90 come un plus di diversità, che per Harlem potrebbe essere afroamericani e jazz, e per Paolo Sarpi la diversità del multietnico che qui è polarizzato sui cinesi e sulla “cinesità”, quindi la possibilità di trovare il cibo cinese ecc. Adesso non so fino a che punto si mangi esattamente cinese quando si va in Chinatown, però è stato fatto marketing di questa diversità. Come per altri quartieri, nel libro ci sono anche ricerche su San Francisco, dove ad esempio è stato fatto marketing sui quartieri gay perché erano quelli che si poteva mettere in vendita.
Per approfondire
Manzo, Lidia Katia C. Gentrification and Diversity. Rebranding Milan’s Chinatown. Springer, 2023.
Le foto nell’articolo sono state fornite dall’intervistatrice Lorenza Dondi, ad eccezione della vista su Chinatown i cui crediti sono di Google Maps.
Per citare questo articolo
Dondi, Lorenza. Chinatown: la trasformazione urbana e sociale del quartiere milanese. Intervista a Lidia Katia C. Manzo, Geolitterae. https://geolitterae.unimi.it/2025/05/31/chinatown-la-trasformazione-urbana-e-sociale-del-quartiere-milanese/