Prigionia e identità collettiva in Rowlandson, Richardson e Manzoni

Premessa

Questo post nasce da una riflessione sulla raccolta di saggi Selve (Mimesis, 2015) e sull’articolo di Nancy Armstrong e Leonard Tennenhouse intitolato The American Origins of the English Novel.

Come Armstrong e Tennenhouse hanno spiegato, nel diciassettesimo e nel diciottesimo secolo la stampa favorisce il processo attraverso cui le giovani colonie inglesi del New England sviluppano una propria cultura peculiare, e nel contempo fa sì che i prodotti di quella cultura comincino ad avere un impatto sulla madrepatria. È significativo che in quel periodo, dai territori d’oltreoceano, giunga in Inghilterra il captivity narrative, una delle tipologie di testo destinate a ispirare il nuovo genere del romanzo. Oltre a proporre un efficace modello narrativo, i captivity narrative esemplificati dalle memorie di Mary Rowlandson (1682) introducono un motivo che sarà liberamente rielaborato da Samuel Richardson in Pamela, or Virtue Rewarded (1740), uno dei primi grandi romanzi inglesi. Si tratta del tema della donna rapita e tenuta prigioniera che, nello sforzo di difendere la propria identità e la propria cultura contro i tentativi di assimilazione e corruzione del rapitore, non si limita a mantenerle integre ma le ridefinisce e le rafforza, per se stessa e per la comunità più o meno ampia a cui appartiene. In entrambi i casi, questo risultato è conseguito dalla protagonista attraverso il potente strumento della scrittura.

Partendo dall’analisi che Armstrong e Tennenhouse danno dell’opera di Rowlandson e di Pamela per poi volgere lo sguardo alla civiltà letteraria italiana, vedremo che il motivo della prigioniera riemerge nell’Ottocento nel primo grande romanzo italiano, con implicazioni simili e nel contempo inedite. Ne I promessi sposi (1840-42), i risvolti della formazione e della difesa dell’identità nazionale e di quella sociale rispettivamente sviluppati da Rowlandson e Richardson si intrecciano, assumendo tuttavia una declinazione nuova, strettamente legata al contesto italiano dell’epoca.

Sinossi

Testi come come quello di Rowlandson erano prodotti da coloni, il più delle volte di sesso femminile, che avevano trovato una nuova casa nel Nord America. Catturati dagli indiani durante delle incursioni, nel corso della loro prigionia nella wilderness, o “natura selvaggia”, avevano resistito a un implicito pericolo di assimilazione, pericolo che in altri captivity narrative (per esempio quelli di John Marrant e Mary Jamison) si era concretizzato. Separata dalla propria comunità da quello che, in accordo a una tristemente nota mistificazione storica, presenta come un invasore del territorio inglese, Rowlandson difende – ancor più che il proprio corpo – la propria identità culturale e nel contempo la rafforza, ponendo l’accento, nella sua testimonianza scritta, sull’alterità dei suoi rapitori. Più precisamente, l’esperienza peculiare vissuta da Rowlandson finisce per dotare lei e, indirettamente, la comunità a cui appartiene di una identità nuova, che non le distingue solo dagli indiani ma anche dagli inglesi europei. È significativo come nei captivity narrative prodotti nel secolo successivo anche i francesi e, nel periodo rivoluzionario, gli inglesi vengano a costituire una minaccia all’identità culturale proto-americana, gli uni attraverso la tentazione della conversione al Cattolicesimo, gli altri attraverso quella del tradimento.

Frontespizio di un’edizione del 1773
conservata alla John Carter Brown Library (Providence)

A conferire autorevolezza a questa identità individuale e condivisa è prima di tutto la capacità dell’autrice di ricostruire per iscritto le proprie disavventure. L’alto tasso di alfabetizzazione che caratterizza le nuove comunità inglesi del New England è, di fatto, diretta conseguenza della loro cultura: deriva dalla loro fede calvinista e dalla pratica – centrale nella loro vita di tutti i giorni – di leggere le scritture individualmente.

È proprio la diffusione della testimonianza di Rowlandson che nel Settecento, per la prima volta nella storia della cultura inglese, permette a un personaggio come Pamela di acquisire – attraverso la scrittura – valore e dignità agli occhi del lettore borghese a dispetto del suo sesso e della sua bassa posizione sociale. Quella testimonianza prepara il pubblico alla lettura del romanzo epistolare di Richardson e lo rende capace di simpatizzare con la sua protagonista, le cui vicende sembrano rimettere in scena – seppur con implicazioni nuove ed esiti più complessi – quelle vissute dalla colona americana.

Pamela, una giovane serva rapita dal figlio della sua padrona, un nobile proprietario terriero che vuole sedurla, difende fino alla fine il proprio onore e i propri valori morali, quindi la propria identità culturale, arrivando a conquistare lei stessa chi voleva conquistarla. La vicenda si conclude infatti con una proposta di matrimonio. Cosa ancora più importante, attraverso questa impresa Pamela impone un modello culturale nuovo per l’intera società inglese. Con la sua resistenza non si limita a suscitare nel pubblico dei lettori una identificazione tra la donna inglese virtuosa e la donna inglese ordinaria, ben distinta da quella aristocratica. Contrapponendo la propria virtù alla corruzione dei membri di un’aristocrazia incline all’abuso, stabilisce un codice morale e di comportamento maschile e femminile, di cui i processi di corteggiamento sono un emblema. In futuro sarà necessario adottare tale codice per divenire membri della nuova classe dirigente, più adatta della precedente a governare.

Illustrazione di L. Truchy e A. Benoist da un’edizione di Pamela del 1745

Ancora una volta, questa asserzione di sé e delle proprie ragioni viene compiuta da Pamela soprattutto per mezzo della scrittura, più precisamente attraverso le lettere che indirizza ai genitori e con cui si guadagna la simpatia del lettore. Entrambe le figure femminili in esame, quella storica e quella letteraria – concludono Armstrong e Tennenhouse – compiono dunque una rivoluzione dalla propria posizione di marginalità attraverso lo strumento della parla scritta.

Possibili sviluppi di ricerca

L’opera di Richardson era destinata ad avere grande diffusione e a essere letta ben oltre i confini della nazione in cui era nata, divenendo uno dei grandi modelli del romanzo europeo – in particolare del romanzo epistolare e del romanzo sentimentale – genere prodotto e fruito dalla nuova classe dirigente borghese. Da subito un “best seller”, Pamela sarebbe stato tradotto in francese e in tedesco già nel 1741 e in italiano tra il 1744 e il 1746. Ad avere successo non sarebbe stata semplicemente la forma narrativa che proponeva, ma la sua stessa trama, ampiamente ripresa e rielaborata anche nell’ambito di generi diversi dal romanzo, in particolare l’opera e il teatro. Date le sue forti implicazioni ideologiche, la storia sarebbe stata però trattata in modi diversi dai diversi adattatori, sulla base delle loro convinzioni personali e del contesto storico-sociale in cui si trovavano a operare. Nell’Italia di metà Settecento, ancora impreparata ad accogliere il messaggio di Richardson, l’adattamento di Goldoni (1750) avrebbe privato la storia del suo carattere innovativo e rivoluzionario attraverso un significativo cambiamento della trama: l’aggiunta della agnizione finale che, rivelando le origini nobili di Pamela, faceva rientrare le nozze con il suo padrone nell’ordine stabilito, senza sovvertirlo in alcun modo. 

Nel frattempo, nell’Italia divisa e in cui la borghesia non aveva ancora raggiunto il ruolo di classe dominante, il romanzo si sviluppava molto più lentamente di quanto avvenisse in Inghilterra e in Francia. Tale ritardo era in parte dovuto alla mentalità letteraria classicista e antiromanzesca dell’epoca, oltre che all’ostilità della Chiesa nei confronti del nuovo genere letterario, in cui vedeva una possibile fonte di corruzione per le donne e i giovani. La maggior parte dei romanzi pubblicati in quegli anni negli stati italiani sono andati perduti proprio perché all’epoca vennero ritenuti indegni di essere studiati e conservati. Ce ne sono tuttavia pervenuti alcuni, come i romanzi dell’abate Pietro Chiari che, sebbene estremamente rudimentali se paragonati a quelli pubblicati in Inghilterra negli stessi anni, ne avevano ereditato un aspetto fondamentale: l’impiego della voce narrante femminile. Le protagoniste dei romanzi di Chiari, per lo più straniere e di buona famiglia, coinvolte in vicende improbabili e rocambolesche, rappresentavano – quantomeno nelle intenzioni dell’autore – dei modelli di emancipazione intellettuale per le lettrici italiane. Se è vero che questi romanzi sarebbero stati inevitabilmente dimenticati a causa del loro scarso valore letterario e formale, i loro contenuti rivoluzionari e scandalosi per i costumi dell’Italia dell’epoca (insieme al poco credito goduto dal romanzo) erano comunque destinati a impedirgli un ingresso nel canone. Sappiamo tuttavia che il successo di cui godettero presso le lettrici garantì loro grande circolazione.

Quando finalmente, all’inizio del diciannovesimo secolo, l’Italia produce i suoi primi due grandi romanzi, a forte vocazione politica, appare chiaro che la nuova narrativa nazionale è dominata da voci maschili. Ne Le ultime lettere di Jacopo Ortis (1802) Foscolo racconta, attraverso la forma del romanzo epistolare, le sofferenze di un amante infelice, allusive di quelle del patriota deluso dal corso degli eventi storici. Ne I promessi sposi (1827-1840-1842), Manzoni adotta invece la forma del romanzo storico inaugurata da Walter Scott, pur trattandola molto liberamente e producendo qualcosa di nuovo e distintamente “italiano”. Attraverso l’impiego di un narratore onnisciente, I promessi sposi racconta una storia individuale e nel contempo collettiva, ambientata in un’epoca passata di dominazione straniera che allude a quella presente.

Il romanzo di Manzoni, pubblicato in un tempo lontano e in un paese ben diverso da quelli che hanno dato i natali alle memorie di Rowlandson e a Pamela, condivide con quei testi la sorte di nascere in un momento di transizione politica e sociale. Appare dunque significativo che in un suo cruciale episodio il motivo della prigioniera emerga nuovamente come strumento retorico volto a trasmettere un messaggio ideologico legato alla definizione di una nuova identità nazionale e di una nuova cultura sociale. Anche nel romanzo di Manzoni la questione dell’alfabetizzazione svolge un ruolo centrale ma, per ragioni storiche contingenti, viene trattata in modo del tutto diverso, determinando un forte ridimensionamento della statura del personaggio femminile.

Nelle vicende vissute da Lucia è possibile individuare, seppur in una declinazione ancora nuova, una significativa eco del motivo della donna rapita così come è stato precedentemente impiegato da Rowlandson e Richardson. Lucia è una giovane filatrice di seta, promessa in sposa a un altro operaio, che subisce le molestie di un aristocratico e che per conto di questi viene fatta rapire da un uomo potente, l’Innominato. La pietà che suscita in lui lo induce però alla conversione, e a confessare le proprie colpe al cardinale Federico Borromeo, che da quel momento garantirà la sua protezione alla giovane. Similmente a quanto accade nel romanzo di Richardson, una rappresentante delle classi sociali più umili viene insidiata e rapita da dei membri dell’aristocrazia, classe dominante corrotta e solita abusare del proprio potere. Anziché lasciarsi corrompere, la ragazza convince il suo rapitore a liberarla, stavolta non semplicemente conquistandolo con la propria virtù, ma inducendolo ad abbracciare la sua fede religiosa. Non a caso il nome di Lucia richiama la santa siracusana che preferì il martirio alle nozze con un pagano.

L’innominato libera Lucia,
illustrazione di Francesco Gonin (1840)

In un’epoca storica in cui molti credono nell’imminente unificazione nazionale, Manzoni impiega questa particolare situazione per esprimere un proprio auspicio riguardante la futura società italiana. Pur avendo origini aristocratiche, l’autore è estremamente critico nei confronti della corrotta aristocrazia italiana e solidale verso le classi subalterne (composte da artigiani, contadini, piccoli imprenditori), in cui vede le forze più produttive e moralmente sane della società, le uniche potenzialmente capaci di rigenerarla. Questo lo porta ad augurarsi l’avvento di un ordine sociale improntato all’egalitarismo evangelico e in cui i valori positivi delle classi più umili saranno condivisi da tutti. I mediatori e garanti del nuovo ordine saranno i rappresentanti della Chiesa Cattolica che – diversamente da quanto accade in Pamela – ne I promessi sposi svolgono un ruolo importante accanto ai potenti corrotti e agli umili oppressi. Da qui il significativo inserimento all’intendo della vicenda del cardinale Federico Borromeo, che diviene una guida tanto per l’Innominato quanto per Lucia.

Se nella testimonianza di Rowlandson la confessione religiosa è uno degli elementi fondamentali che vanno a costituire l’identità delle nuove comunità inglesi d’oltreoceano, accentuandone la contrapposizione a quelle indiane, nel romanzo di Manzoni la fede religiosa diviene invece un collante sociale che sana antiche fratture interne a un popolo diviso, oltre che parte integrante della sua cultura nazionale. Vediamo dunque che la questione dell’identità nazionale espressa dal captivity narrative di Rowlandson e la questione della nascita di una nuova cultura sociale, centrale in Pamela, si compenetrano ne I promessi Sposi raggiungendo, ancora una volta, una sintesi eloquente in un motivo di vecchia data.

Una distinzione

C’è tuttavia una fondamentale differenza tra l’opera di Manzoni e quelle dei suoi predecessori. Nei testi di Rowlandson e Richardson la donna diviene protagonista e asserisce in modo attivo e consapevole la propria identità e la propria cultura al fine di respingere il nemico o convertirlo alla sua visione, il tutto attraverso lo strumento della scrittura. Ne I promessi sposi invece Lucia diviene lei stessa strumento passivo con cui l’autore dà un preciso corso agli eventi e, attraverso quelli, esprime il suo messaggio ideologico e i suoi auspici per il futuro. Lucia, come storicamente le classi subalterne che rappresenta, non ha gli strumenti per fare ciò che Mary Rowlandson e Pamela (rispettivamente nella realtà e nella finzione) hanno fatto in precedenza, strumenti che tuttavia Manzoni rivendica per lei. Quando alla fine della storia i due sposi ricongiunti troveranno dimora nel territorio della Serenissima – dove da contadini e operai che erano si faranno piccoli imprenditori – si impegneranno a insegnare ai propri figli a leggere e a scrivere, al fine di renderli meno indifesi di quanto lo siano stati i loro genitori. Per il momento, però, poiché i protagonisti non possono scrivere la propria storia in prima persona, il narratore si incarica lui stesso di raccontarla dal loro punto di vista e con atteggiamento simpatetico, seppur paternalistico.

Rendendo per la prima volta nella storia della letteratura italiana dei personaggi umili protagonisti di una vincenda tragica, Manzoni induce il lettore stesso a immedesimarsi con loro. In altre parole, realizzando quello che in seguito sarà considerato dalla critica uno dei propositi fondamentali del romanticismo italiano, si serve del potere dell’arte per edificare i lettori del ceto medio e spingerli a interessarsi ai ceti popolari – in modo particolare in relazione al problema dell’analfabetismo – scuotendo nel contempo le coscienze riguardo all’ingiustizia dei privilegi.

Se ne I promessi sposi la scrittura non costituisce un’arma politica nelle mani dei protagonisti, rappresenta comunque uno strumento fondamentale per l’autore che, come è noto, attraverso questo romanzo ha dato vita a quella che sarà la lingua nazionale italiana.

Bibliografia  

  • Armstrong, Nancy e Leonard Tennenhouse. “The American Origins of the English Novel”. American Literary History, vol. 4, n. 3, Autumn 1992, pp. 386-410.
  • Crivelli, Tatiana. “Né Arturo né Turpino né la Tavola rotonda”: Romanzi del secondo Settecento italiano. Salerno, 2002.
  • Crivelli, Tatiana. Pamela, o la virtù ricompensata: Metamorfosi settecentesche. Cadmo, 2000.
  • Guglielmino, Salvatore e Hermann Groser. Letteratura Italiana. Principato, 1992.
  • Lo Castro, Giuseppe. “Donne, giovani, straniere: il personaggio femminile alle origini del romanzo italiano”, Atti del convegno: La letteratura degli italiani: rotte confini passaggi. Università di Genova, 2012.
  • Moretti, Franco. Atlante del romanzo europeo: 1800-1900. Einaudi, 1997.
  • Salvadé, Anna Maria. Selve: Tra geografia e letteratura. Mimesis, 2015.